La scoperta delle ricchezze del Mare del Nord, nel 1970, ha rappresentato la cosa più fruttuosa dell’odierno nazionalismo scozzese e ciò che ha consentito il rinascere dello spirito indipendentista al grido “è il nostro petrolio”.
Quattro decenni dopo, niente sarà più rilevante dell’industria per il futuro finanziario della Scozia, che si prepara a mettere fine all’unione britannica dopo 307 anni. Le riserve di petrolio e gas verrebbero divisi, per quanto possibile lungo la cosiddetta linea mediana, già adoperata per assegnare i diritti di pesca.
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La divisione dovrebbe assegnare agli scozzesi, approssimativamente il 96% della produzione annua di petrolio e il 47% di quella del gas, stando a stime fatte nel 2012 da parte dell’Università di Aberdeen. A pochi giorni dal referendum, che si svolgerà il 18 settembre, i sondaggi di opinione presentano un completo equilibrio tra favorevoli e contrari alla separazione. Il problema maggiore su questo ramo è se l’industria petrolifera, la cui produzione è precipitata del 40% in 4 anni, riuscirà a servire adeguatamente i fabbisogni di uno stato appena creato.
“C’è un gran parlare di enormi nuovi sviluppi nel Mare del Nord, ma l’andamento della produzione petrolifera è colata a picco negli ultimi 10 anni”, ha affermato David Bell, professore di economia presso l’Università di Stirling. Mentre l’economia della Scozia ha basi di forza nel comparto del turismo, della finanza e nell’esportazione del whisky, il petrolio rimane in ogni caso fondamentale. Bell ha poi ricordato che, con la spesa pubblica di circa 1.300 sterline per persona, circa 2.100 dollari, il più alto del Regno Unito, “il governo scozzese dovrà fare affidamento sulle entrate petrolifere del Mare del Nord, per fare la differenza da subito”.