Poco per volta, un centesimo in più una tantum, il peso delle tasse sul carburante ha sfondato quota un euro al litro: lo Stato incassa, tra Iva e accise, 1,012 euro per ogni litro di “verde”.
Il prezzo del Brent è tornato ai livelli del 2009, ma la verde costa il 36% in più. Abbastanza per capire come mai il crollo delle quotazioni del petrolio, complice la crisi economica e la svalutazione dello yuan cinese, non riesca a portare il giusto sollievo alle tasche degli italiani alle prese con le vacanze estive.
Il calo del greggio non è mai accompagnato da un corrispondente calo dei prezzi al distributore. Basti pensare che da inizio anno le quotazioni del Brent – il pregiato petrolio del mare del nord – è calato del 15% (il 6,3% depurato dall’effetto cambio), mentre il prezzo della verde – rilevato dal ministero dello Sviluppo economico – è salito del 4%. Eppure con le accise ferme ad aumentare è stato solo il prezzo industriale della benzina, l’unica variabile che dipende direttamente dalle compagnie petrolifere, passato da 0,539 a 0,562 euro al litro. I petrolieri si giustificano spiegando di essere loro ad assorbire i rialzi delle quotazioni del greggio per evitare pesanti ricadute sui consumatori finali. Come a dire che l’aumento dei margini quando le quotazioni della materie prime calano sono solo una sorta di risarcimento.
Tuttavia, quando il prezzo del petrolio sale, la correzione dei prezzi verso l’alto è immediata, quando invece scende l’aggiustamento è sempre più lento. Il greggio, in calo sotto quota 49 dollari al barile, è tornato sui livelli del marzo 2009 quando il costo industriale era fermo a 0,403 euro al litro: il 28,3% in meno rispetto ad oggi. Certo l’euro viaggiava oltre 1,3 contro il dollaro, mentre adesso scambia intorno a quota 1,11, ma anche depurato dall’effetto cambio il prezzo al barile nel 2009 era più economico “solo” del 15,9%. Insomma resta un ampio margine difficilmente giustificabile.