In alcuni casi, definiti e circoscritti dalla legge, i datori di lavoro hanno la possibilità di controllare i loro dipendenti così da individuare comportamenti illeciti che danneggiano l’immagine dell’azienda, riducono la produttività e possono essere puniti anche con il licenziamento. Ma non tutti gli strumenti sono validi.
Il controllo deve essere esercitato senza ledere la privacy dei dipendenti. C’è però da dire che la diffusione dei social ha complicato parecchio la situazione dei lavoratori semplificando l’attività di screening dei datori di lavoro. Quando si seleziona un profilo per un colloquio, per esempio, è facile che il datore di lavoro sbirci su internet quel che pubblica e condivide la persona che incontrerà. Questo comportamento è lecito. Molti datori di lavoro potrebbero addirittura usare Facebook, Twitter e Linkedin per trovare persone adatte a ricoprire un certo ruolo in azienda.
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In più, quando una persona è assunta, l’uso che dei social deve fare, è molto più attento e prudenti. È legittimo infatti, il licenziamento di chi usa in modo improprio i social network, per esempio postando delle foto scattate durante l’orario di lavoro e accompagnate da commenti offensivi nei confronti dell’azienda. Queste informazioni pubblicate sui social possono addirittura essere usate come prove in tribunale.
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Se invece il licenziamento è determinato da informazioni reperite in rete riguardo dati sensibili del lavoratore, tra cui la sua vita sessuale o l’orientamento sessuale stesso, il licenziamento è nullo perché considerato discriminatorio. Illegittime, è ovvio, anche tutte le intercettazioni delle conversazioni in chat.
Se ci sono dipendenti che lavorano in mobile working il datore di lavoro può geolocalizzarli ma è importante che controllandone la posizione non entri in possesso di altre informazioni relative alla sfera priva del collaboratore. Così come le chat anche la corrispondenza del lavoratore è coperta dall’obbligo di privacy.