Il caso del nuovo amministratore delegato di Alitalia, l’australiano Cramer Ball, è soltanto l’ultimo in ordine di tempo di una lunga teoria di manager arrivati da oltre confine alla guida di aziende della Pensiola da rilanciare dopo essere state acquistare da gruppi stranieri.
Non solo Cramer Ball. Soltanto nell’ultima settimana abbiamo registrato prima la nomina di Marc Benajoun come nuovo amministratore delegato di Edison (di proprietà dei francesi di Edf) e poi di Olivier Jacqueir nominato a capo della filiale italiana di Engie (l’ex Gas de France Suez). Ma prima ancora c’erano state le nomime ai vertici di Parmalat, Loro Piana, Safilo, Lamborghini… Ma la “moda” del manager straniero è pervasiva e colpisce anche le aziende che – ancora – non sono state vendute all’estero e mantengono capitale italiano. Per esempio, ha scelto fuori dall’Italia per ben due volte Leonardo Del Vecchio, sia per Luxottica che per Beni Stabili. O la famiglia Agnelli per la società dei trattori Cnh (tenendo conto che “tecnicamente” Sergio Marchionne sarebbe italo-svizzero-canadese), o i Garavoglia per la Campari.
Anche se il primato dell’esterofilia spetta spetta sicuramente all’Internazionale Football Club: dopo la cessione del pacchetto azionario da parte della famiglia di Masssimo Moratti a un imprenditore indonesiano, metà del consiglio di amministrazione è inglese, così come la maggior parte dei dirigenti di primo piano. Per non parlare dei giocatori che scendono in campo, dove a stento si trova un italiano negli undici titolari. E persino l’incarico di rifacimento di San Siro è stato dato a uno studio di architettura di Londra. Del resto con quel nome, sarebbero anche gli unici giustificati.