Nel 2014 aveva un valore pari a 15 miliardi di dollari. Nel 2025 – secondo gli esperti di PriceWaterHouseCooper – la sharing economy genererà un giro d’affari da 235 miliardi di dollari l’anno.
Da AirBnb e Uber sono molte le piattaforme capaci di “cambiare radicalmente sia il modo in cui consumiamo alcune cose che come lavoriamo per poterle fare”: ampliano la possibilità di scelta dei consumatori, riducono i costi e permettono di guadagnare con poche risorse. Utilizzando propria auto, il proprio appartamento o solo il tempo libero.
C’è però un rovescio della medaglia. Quello messo nel mirino dai detrattori delle piattorme che le accusano di mettere in crisi settori tradizionali, a cominciare dai tassisti che per le loro licenze hanno speso molti soldi. Per altri si tratta di concorrenza sleale, eppure il mercato cresce. Basti pensare che nelle ultime settimane di ottobre, con Expo agli sgoccioli, a Milano non c’era un solo appartamento disponibile su AirBnb.
D’altra parte nonostante le resistenze degli italiani che restano estremamente conservatori, il 62% degli italiani intervistati da Altroconsumo nell’ambito dello studio internazionale “Collaborative consumption: unlocking its real value for the users” ha partecipato almeno una volta a esperienze di condivisione, diventando soggetto della sharing economy.
Chi non lo ha fatto, invece, ha citato come barriera d’ingresso soprattutto gli aspetti informativi. Tuttavia tra chi ha dichiarato un’esperienza recente, il 70% si dice molto soddisfatto; percentuale che sale al 77% quando l’interazione è online.
Insomma, la nuova catena digitale del valore si compone di ruoli interscambiabili: chi eroga il servizio diventa anche chi fruisce, con una costante ricollocazione in uno spazio liquido; l’àncora è la piattaforma tecnologica capace di offrire soluzioni che consentono la negoziabilità di un bene non utilizzato, ciò che da una parte genera un’entrata dall’altra un risparmio.