Abbiamo contattato Geneve Invest per avere un punto di vista tecnico sulla guerra commerciale che ormai da alcuni mesi vede Cina e Stati Uniti battagliare sui dazi imposti alle merci scambiate fra i due paesi. Ad oggi, infatti, non vi è all’orizzonte una soluzione alla battaglia imbastita dal presidente USA Donald Trump, mentre i primi effetti concreti delle misure cominciano a manifestarsi in maniera concreta non solo nei due paesi di riferimento, ma anche su un’economia globale che patisce i 250 miliardi di dollari di imposte cui oggi sono soggetti enormi percentuali di prodotti esportati fra Cina e Stati Uniti.
Le tariffe agiscono come una tassa fissa sulle merci che entrano nei due paesi, il che significa che i beni in viaggio dagli Stati Uniti alla Cina, e viceversa, vengono colpiti, oltre che dalle normali tassazioni, anche da un aggiuntivo dazio del 25%. Il risultato di questo meccanismo è che i prodotti toccati dalla nuova tassazione diventano più costosi, il che, in teoria, dovrebbe spingere le aziende statunitensi, e quelle cinesi, ad acquistare merci di altra provenienza.
“Gli Stati Uniti sono, fra i due paesi, quelli che potrebbero avere più da perdere – spiegano da Geneve Invest – dato che i prodotti cinesi rappresentavano, prima dell’inizio delle ostilità, circa il 21% di tutte le importazioni in arrivo negli Stati Uniti nel 2017. La Cina, peraltro, è un paese chiave per le importazioni di tantissimi stati americani: soltanto Nord Dakota, Lousiana e Delaware non vedono la Cina fra i primi cinque paesi delle loro importazioni. La scelta di Trump va nella direzione di contrastare il deficit commerciale fra Washington e Pechino – spiegano ancora gli esperti di Geneve Invest, società che lavora nell’ambito della gestione patrimoniale in modo indipendente – ma non è detto che il protezionismo sia la soluzione corretta: il rischio è che i dazi imposti dagli Stati Uniti vengano per lo più pagati da società e consumatori americani, mentre la Cina si sta vendicando imponendo tasse che non disturbano troppo le aziende locali. Circa il 60% delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti – concludono il passaggio da Geneve Invest – sono prodotte in fabbriche di proprietà non cinese. Molte producono beni personalizzati per produttori americani, come ad esempio router internet, apparecchi a LED e motori per barche. Ciò significa che le tariffe imposte dall’amministrazione Trump alla Cina interessano effettivamente molte società americane (ed europee) che possiedono fabbriche in Cina”.
Da sottolineare vi è anche come gran parte di ciò che gli Stati Uniti importano dalla Cina contiene elementi creati in altre località, inclusi gli Stati Uniti stessi. Un iPhone importato dalla Cina, ad esempio, integra un display realizzato in Corea del Sud, un chip in arrivo dal Giappone, un design e contenuti di programmazione statunitensi. Quindi, per ogni dollaro di vendite perso da una società cinese, si ha in realtà un impatto inferiore a quello stesso dollaro, sull’economia cinese, visto che bisogna redistribuire la perdita fra diverse nazioni. Nei computer e nell’elettronica, che rappresentano la maggior parte delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti, il valore cinese aggiunto in ciascun dollaro di importazioni è di circa 50 centesimi. Di conseguenza, è improbabile che l’effetto negativo delle tariffe sulla produzione cinese sia sufficientemente ampio da avere un impatto significativo sulle pratiche commerciali della Cina. Inoltre, con l’intensificarsi della guerra commerciale, la leadership cinese sembra aver approfondito il proprio impegno nei confronti delle catene di approvvigionamento internazionali, scatenando dunque la reazione opposta rispetto all’obiettivo dell’amministrazione Trump, il cui unico risultato è al momento quello di isolare i produttori americani.
“Alla fine di giugno, Pechino ha reso più facile per gli investitori stranieri entrare nei settori bancario, agricolo, automobilistico e dell’industria pesante – sottolinea Neri Camici di Geneve Invest – e dopo i dazi annunciati dagli Stati Uniti a fine luglio, la Cina ha ribadito l’intenzione di aprire ulteriormente la propria economia. L’esempio più nitido è legato a Tesla, la società automobilista di auto elettriche e a basso impatto ambientale, che recentemente è diventata la prima società del settore non cinese ad ottenere l’autorizzazione a operare senza un partner locale, con un accordo per costruire una fabbrica interamente indipendente, a Shangai, per produrre veicoli elettrici. Queste mosse inviano un segnale forte agli investitori, e spiegano che la Cina rimane impegnata nei confronti dei suoi partner internazionali, anche nel bel mezzo di una guerra commerciale. Certo non è tutto rose e fuori – conclude Camici da Geneve Invest – la Cina è infatti ancora impegnata in politiche che minano l’equità nel sistema commerciale mondiale e continua a non rispettare gli impegni di apertura di settori specifici alla partecipazione straniera.”