Capita spesso che molte truffe finanziarie e fiscali siano architettate attraverso l’istituzione di un giro di prestanome e personaggi truffaldini. Nel caso dei prestanome, in genere, i malintenzionati fanno ricorso alla disponibilità e alla buona fede di amici e parenti.
Siccome è una pratica molto frequente è quasi automatico che gli inquirenti abbiano la necessità di sbirciare anche sui conti di mariti, mogli e amici intimi dei soggetti protagonisti dell’inchiesta. Varie leggi e tante interpretazioni della normativa sulla privacy, spesso, hanno impedito di andare fino in fondo.
Adesso, dopo la sentenza 21420 del 30 novembre 2012 della Corte di Cassazione, qualcosa sta cambiando. L’Agenzia delle Entrate aveva mandato un accertamento nei confronti di un commerciante al fine di recuperare a tassazione, per l’anno d’imposta 2013, i maggiori redditi spostati sul conto della moglie che figuravano come accrediti e addebiti sul conto corrente della donna.
Il Ctr Liguria aveva rigettato l’appello della parte pubblica, annullando l’atto impositivo e giustificando la decisione con il fatto che non era possibile attribuire alcune movimentazioni all’attività commerciale del marito, perché, in linea teorica, potevano essere state compiute anche dalla moglie.
La Cassazione ha ricorso contro questa decisione lamentando il fatto che il Ctr non si era preoccupato di approfondire gli elementi indiziari. Sarebbe bastato considerare che la donna faceva la casalinga per capire che tanti movimenti economici non potevano esserle attribuiti. La Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso delle Entrate.