Con il Decreto Lavoro entrato in vigore il 31 agosto 2013, il Governo Letta ha voluto fare degli aggiustamenti e delle correzioni rispetto alla precedente normativa, con lo scopo di rilanciare un mercato che in Italia è ormai immobile da troppo tempo e che esclude una grossa fetta della popolazione.
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La disoccupazione in Italia è ormai ferma al livello record del 12% della popolazione attiva, percentuale che si alza in modo esponenziale quando l’analisi si restringe in base all’età: a soffrire di più della mancanza di lavoro sono i giovani, che non hanno modo di entrare in questo mondo (il tasso di disoccupazione per i giovani sotto ai 25 anni a luglio 2013 è stato al 39,5%, +0,4% rispetto a giugno e +4,3% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno).
Tra le cause principali, per quanto riguarda i giovani, la mancanza di un filo diretto che porta i giovani dalla scuola al lavoro, un problema che il Governo Letta ha provato a risolvere con degli incentivi all’apprendistato e all’assunzione di giovani.
Ma, secondo alcuni esperti, tra i quali figura anche Tito Boeri, uno dei più importanti economisti italiani, il problema di questo Decreto lavoro, quello che lo porterà a non fare alcuna differenza per chi si trova senza lavoro, è proprio la struttura di questi incentivi all’occupazione, giovanile e non: gli incentivi sono temporali, ossia hanno una scadenza e anche molto ravvicinata. Fatto, questo, che li rende praticamente inutili:
Quando si hanno poche risorse da distribuire – afferma Boeri – è meglio che vengano concentrate in pochi provvedimenti di lunga durata, come poteva essere un sussidio permanente per le retribuzioni più basse. Altrimenti c’è il rischio che gli incentivi, distribuiti su troppi interventi e per periodi limitati, si esauriscano senza avere inciso sull’economia reale. Insomma, che siano soldi buttati via.
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Ma il problema sembra non essere solo questo: secondo la Prof. Silvia Ciucciovino dell’Università degli Studi di Roma Tre, c’è bisogno di un cambiamento radicale che porti all’eliminazione della prassi di una riforma all’anno,
almeno per due ragioni: in primo luogo perché l’instabilità e l’incertezza delle norme è un elemento di ulteriore disfunzionalità del mercato del lavoro e di scoraggiamento degli investitori stranieri a operare nel mercato italiano; in secondo luogo perché la crescita dell’occupazione dipende, non certo dalle norme, quanto da una seria politica di investimento sulla crescita economica del Paese.