Dall’inizio dell’anno chiuse migliaia di imprese

 17.088 imprese, tra bar e ristoranti, da inizio 2013, hanno abbassato definitivamente le saracinesche. Se il ritmo delle chiusure delle attività commerciali delle città italiane mantiene lo stesso ritmo registrato per i primi quattro mesi del 2013 si rischia che le nostre città diventino una lunga vetrina di negozi chiusi.

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Lo dice la Confesercenti. 17.088 bar e ristoranti significa una contrazione del 5% del totale delle imprese registrate nel settore, ma alle imprese che operano nell’abbigliamento potrebbe anche andare peggio: da inizio anno sono state chiusi 11.328 esercizi, l’8% del totale.

Si salva solo il settore alimentare che vede una contrazione minore, registrando la chiusura di ‘solo’ 4.701 unità, con una variazione negativa del 3% sul 2012.

Secondo la Confesercenti alla fine del 2013 il rapporto tra aperture e chiusure di imprese che operano nell’abbigliamento potrebbe essere di 2 a 7, mentre per il resto delle attività il rapporto medio aperture-chiusure si attesterebbe sul’1 a 3.

Una situazione, questa, che si registra in tutte le regioni d’Italia ma che colpisce in modo più marcato soprattutto il sud della penisola. Nel settore alimentare la situazione peggiore si riscontra in Sicilia, dove apriranno 288 attività commerciali a fronte della chiusura di 1.080.

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L’abbigliamento soffre di più in Basilicata: 240 chiusure e solo 84 nuove aperture, per una perdita del 10% dei negozi del territorio. L’Abruzzo farà invece segnare il record di chiusure per i ristoranti: 144 aperture e 534 chiusure.

Quanto costa la burocrazia per le piccole e medie imprese italiane

 La burocrazia lenta e farraginosa tipica del nostro paese è uno dei problemi più pesanti per le piccole e medie imprese italiane che, ogni anno, sono costrette a pagare il peso di questa maglia di regole, norme e tasse nella quale sono ingabbiate.

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Secondo i dati riportati dalla Cgia di Mestre, calcolati su base annua e sono aggiornati al 31 dicembre 2012, la burocrazia italiana costa alle imprese 31 miliardi di euro ogni anno, 7.000 euro circa per ogni impresa.

Ad incidere di più su questa spesa sono il costo del lavoro e della previdenza che richiedono la tenuta dei libri paga, comunicazioni per assunzioni o cessazioni e dei dati mensili di retribuzione e contribuzione etc, che nel complesso costa alle Pmi  9,9 miliardi di euro all’anno.

Altro costo per le imprese è quello della sicurezza: 4,6 miliardi di euro per valutazione dei rischi, piano operativo di sicurezza, formazione obbligatoria etc, che pesano per 1.053 euro annui su ogni impresa.

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Poi ci sono i costi da sostenere per l’area ambientale (3,4 miliardi di euro l’anno), quelli per le dichiarazioni dei sostituti di imposta e le comunicazioni periodiche ed annuali Iva (2,7 miliardi all’anno) e i costi per la contabilità aziendale, per i quali le piccole e medie imprese sborsano ogni anno circa 632 euro.

Più della metà degli italiani non andrà in vacanza

 A dirlo è il Codacons che, come ogni anno in questo periodo, ha pubblicato i dati relativi alle vacanze degli italiani. Quest’anno, causa crisi e rincaro dei prezzi, saranno più della metà dei cittadini a non potersi permettere il meritato riposo: 33 milioni in tutto, il 55% della popolazione totale, 6 milioni in più rispetto allo scorso anno.

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Ma anche chi potrà permettersi di partire dovrà fare i conti con la crisi: i giorni di villeggiatura saranno di meno e anche la spesa prevista è stata ridotta all’osso. La maggior parte degli italiani, poco più del 50%, farà vacanze della durata 7/10 giorni, il 35% potrà permettersi di stare fuori casa per un periodo di tempo di 14/15 giorni e solo il 15% potrà andare oltre la soglia delle due settimane.

Si parte ma si spende di meno: se lo scorso anno la media di spesa per un giorno di vacanza si attestava intorno ai 104 euro, per quest’anno la spesa è stata ridotta di circa il 7%, arrivando ad un massimo di 97 euro al giorno per persona.

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In questi 97 euro ci si dovranno far rientrare i costi di trasporto (auto, treno o aereo), i soggiorni, le spese per l’alimentazione, per i servizi balneari, per lo svago e l’intrattenimento e altro.

La Francia si mette di traverso al libero scambio tra Usa e UE

 Il governo francese lo ha annunciato: se non si escluderanno dalle trattative tra Unione Europea e Stati Uniti per il libero scambio economico il cinema e i media digitali. La Francia teme che una tale apertura porterebbe ad una invasione del suo mercato di pellicole hollywodiane che metterebbero a repentaglio la sopravvivenza del suo cinema e, quindi, di una parte fondamentale della sua identità nazionale.

Le trattative dovrebbero partire a luglio, anche se l’idea di questa apertura risale a circa 30 anni fa, e si configura come una grandissima opportunità per l’Europa che potrebbe giovare del grande mercato degli Stati Uniti per poter risollevare le sorti della sua economia e delle sue aziende.

Ma la Francia questa opportunità la vede come un rischio e condanna la trattativa al fallimento: in Unione Europea tali decisioni richiedono l’unanimità e il voto contrario della Francia equivale ad un nulla di fatto.

Da parte degli Stati Uniti, anche loro avrebbero di che guadagnare da questo accordo, la speranza sta nel fatto che i Paesi dell’Unione Europea possano esercitare una sorta di pressione sulla Francia portandola a rivedere, o quantomeno ad ammorbidire, la sua chiusura.

Cresce il debito pubblico italiano

 Il debito pubblico italiano a gennaio ammontava a 2.022 miliardi di euro. A febbraio sembrava fosse successo il miracolo e il debito era sceso di ben 5 miliardi, arrivando così a 2.017, per poi, però, risalire immediatamente dopo, con i 2.034 miliardi di marzo e il nuovo record che ha toccato ad aprile del 2013, con il raggiungimento dei 2.041,3 miliardi.

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A dirlo è il bollettino statistico stilato da Bankitalia che spiega questa nuova impennata con l’aumentato fabbisogno delle pubbliche amministrazioni, che negli ultimi quattro mesi hanno avuto necessità di 46,6 miliardi di euro, una cifra che supera di 0,5 miliardi il fabbisogno registrato nello stesso periodo dello scorso anno.

Ad incidere di più sull’aumentato fabbisogno delle pubbliche amministrazioni hanno contribuito quelle locali, con una richiesta maggiore da parte delle Regioni, il cui debito è salito a 46,7 miliardi, in aumento di 1,37 miliardi rispetto al mese precedente.

Meglio le Provincie, che hanno visto calare il debito a 8,26 miliardi dagli 8,5 di marzo, mentre particolarmente virtuosi si sono dimostrati i Comuni che hanno diminuito il loro debito di 1 miliardo di euro.

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Bankitalia, inoltre, evidenzia che nei primi quattro mesi del 2013 sono aumentate le entrate tributarie: +1,58% rispetto allo stesso periodo del 2012.

L’Antitrust multa i traghetti per la Sardegna

 L’AGCMAgenzia Garante della Concorrenza e del Mercato – ha deciso che Moby, Snav, Gnv e Marinvesto dovranno pagare una multa di circa 8 miliardi di euro per aver stretto un accordo fra di loro allo scopo di aumentare i prezzi dei viaggi da e verso la Sardegna. Il periodo al quale si riferisce il garante è il 2011 e le rotte incriminate sono rotte Civitavecchia-Olbia, Genova-Olbia e Genova-Porto Torre.

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In quel periodo e per quelle tratte i prezzi dei viaggi sarebbero aumentati anche del 65% senza che ci fossero motivi reali per farlo.

Il problema non è solo l’aumento dei biglietti, ma il fatto che gli aumenti si sono verificati parallelamente per tutte le compagnie indicate dall’Antitrust, quando, nei periodi precedenti, le compagnie avevano sempre definito i prezzi dei viaggi seconde le regole della libera concorrenza.

Nello specifico gli aumenti registrati dall’Antitrust sarebbero stati del 42% sulle rotte Civitavecchia-Olbia (da 35 a 49 euro) e Genova-Olbia (da 57 a 81 euro) e del 50% sulla Genova-Porto Torres (da 65 a 98 euro).

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Secondo l’Antitrust si hanno tutti i presupposti per pensare alla creazione di un cartello dal momento che in quel periodo non sono state riscontrati aumenti del carburante né perdite in bilancio delle compagnie tali da poter giustificare in altro modo un aumento dei prezzi così omogeneo.

Barare in Borsa è legale, lo dice il Wall Strett Journal

 Anche chi non comprende molto di come si investe in Borsa, sa che ci sono delle persone che sembrano avere un particolare intuito per azzeccare le vendite e gli acquisti di azioni e di altri strumenti finanziari.

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Sono persone che riescono ad avere accesso a delle informazioni in anticipo rispetto agli altri e che, quindi, possono agire prima degli altri e guadagnare molto di più dalle loro transazioni. Secondo il Wall Street Journal, quando questi dati arrivano da studi effettuati da soggetti privati, pagare per ottenerli in anticipo – questa è la prassi – non può essere considerato insider trading.

L’inchiesta su questa prassi fatta dal Wall Street Journal prende ad esempio un caso del genere avvenuto il 15 marzo scorso. Era il giorno in cui la Borsa americana attendeva il dato, elaborato dalla University of Michigan, che è un soggetto privato, sulla fiducia dei consumatori americani. La Infinium Capital Management, pagando quanto richiesto, riuscì ad ottenere il dato in anticipo di alcuni secondi rispetto ai concorrenti e fece quanto necessario.

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Ciò su cui si sofferma l’inchiesta del Wall Street Journal è la mancanza di una legislazione mirata negli Stati Uniti che prevede il reato di insider trader per chi riesce ad ottenere in anticipo i dati elaborati da soggetti pubblici, ma non per quelli che, pur essendo particolarmente influenti per le dinamiche delle transazioni in Borsa, sono elaborati da soggetti privati come il dato sulla fiducia dei consumatori della University of Michigan e l’indice manifatturiero dell’Institute for Supply Management.

Aumento dell’Iva: quanto costa alle famiglie e quanto ne guadagna lo Stato

 Il Governo sta ancora discutendo per capire se ci sono le possibilità per evitare, o almeno per posticipare, il famigerato aumento dell’Iva che arriverà dal primo luglio 2013. L’Imposta sul valore aggiunto passerà dal 21 al 22% su una larga fetta dei generi di consumo e si prospetta come l’ennesimo salasso per le famiglie italiane.

► Cosa aumenta e cosa no con l’aumento dell’Iva

Sono state fatte diverse stime su quanto costerà effettivamente alle famiglie questo aumento e, secondo la CGIA, la Confederazione degli Artigiani di Mestre, nei prossimi sei mesi gli italiani spenderanno tra i 44 euro e i 51,5 euro in più, in base al numero dei componenti del nucleo famigliare.

Questo aumento dell’Iva non è stato voluto dall’attuale Governo, ma era stato già previsto dal precedente, ossia dal governo dei tecnici guidato dal Professor Monti.

L’obiettivo dell’aumento dell’Iva è quello di recuperare risorse per lo Stato. Si stima che potrebbero arrivare alle Casse dell’Erario circa 4 miliardi di euro.

► L’aumento dell’Iva potrebbe essere rinviato di tre mesi

È possibile? Forse sì, se la situazione economica dovesse migliorare ma le esperienze precedenti ci dicono che si tratta di una possibilità piuttosto remota: lo scorso anno l’Iva era stata già aumentata ma il gettito per le casse dello Stato, invece di aumentare di pari passo, è diminuito di 3,5 miliardi di euro, a causa del crollo dei consumi delle famiglie.

 

Cosa aumenta e cosa no con l’aumento dell’Iva

 La maggior parte dei beni di consumi vedranno aumentare il loro prezzo dal primo luglio, giorno in cui è previsto l’aumento dell’Iva di un punto percentuale, che passerà, quindi, dall’attuale 21% al 22%. Non tutti i beni di consumo saranno interessati da questo aumento, infatti si salveranno i beni di prima necessità la cui imposta agevolata attualmente vigente resterà invariata.

► Per il blocco dell’ Iva servono 8 miliardi

Tra questi generi di consumo ci sono gli alimenti come pane, pasta, formaggi e verdura e gli immobili adibiti a prima abitazione, che conserveranno l’aliquota al 4%.

Aliquota Iva invariata al 10% anche per beni e di servizi definiti intermedi come la carne, il pesce, i medicinali o il caffè del bar.

A subire il balzello dell’Iva che si riverserà sul costo del prodotto finale saranno i generi non di prima necessità, tra i quali figurano elettrodomestici, vino, oggetti hi-tech, vestiti e veicoli a motore.

Facendo un rapido calcolo, quando si acquisterà, dopo il primo luglio, una bottiglia di vino dal costo unitario, prima dell’aumento dell’Iva, di 10 euro, il prezzo da pagare sarà di 10,8 euro. Un televisore da 500 euro ne arriverà a costare 504 euro.

► L’aumento dell’Iva potrebbe essere rinviato di tre mesi

Sembra poco, ma se si sommano tutti gli acquisti che deve fare una famiglia ogni giorno si ha la misura del peso che gli italiani dovranno sopportare.

La popolazione mondiale salirà a 11 miliardi nel 2100

 La popolazione mondiale potrebbe aumentare e raggiungere gli 11 miliardi di persone, ovvero quasi 800 mila in più in confronto alle previsioni fatte nel 2011, nel 2100.

Stando a una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington per le Nazioni unite, a spingere l’aumento demografico è soprattutto l’Africa.

L’Italia, però, è in controtendenza e continua sulla strada della ‘crescita zero’: entro il 2100 – in base al rapporto Onu – perderà più di 6 milioni di abitanti.

Ed entro il 2050 un cittadino italiano su due sarà ultrasessantenne, con l’aspettativa di vita in costante aumento, in aumento a 82,3 anni nel 2015 e ancora a 93,3 anni a fine secolo.

Ci sono però anche casi in cui l’effettivo livello della fertilità sembra essere aumentato negli ultimi anni, in altri casi, la stima precedente era troppo bassa, come ha detto John Wilmoth, direttore della divisione popolazione del Dipartimento per gli Affari economici e sociali, il quale ha presentato il rapporto al Palazzo di Vetro di New York.

Le piccole distinzioni nella traiettoria della fertilità nei prossimi decenni potrebbero avere importanti conseguenze per quanto riguarda le dimensioni, la struttura e la distribuzione della popolazione a lungo termine.