Fino a 600 mila euro per il ricongiungimento previdenziale

 La previdenza è la bestia nera del governo tecnico, questione sulla quale si stanno facendo molte proposte, a volte anche contrastanti fra loro, per riuscire a risolvere il problema: da un lato la necessità di recuperare fondi per la copertura degli esodati (coloro che con la riforma si sono trovati senza reddito e senza pensione) e, dall’altro, il problema del ricongiungimento delle pensioni.

In questo secondo caso, all’ordine del giorno nell’agenda governativa, non sono mancate polemiche, forse meno gridate di quelle degli esodati, ma non per questo meno forti.

Il ricongiungimento, che fino a qualche tempo non costituiva un problema, dal momento che farlo era gratuito e anche piuttosto semplice, ora si è trasformato in un incubo. Dal 2010, infatti, il passaggio dei contributi pensionistici all’Inps è a titolo oneroso e, purtroppo, si tratta di somme impressionanti (alcuni potenziali ricongiunti si sono sentiti chiedere anche 600 mila euro).

E non c’è via di scampo: per chi, passando dal pubblico impiego al privato, cambia cassa di appartenenza, l’unica altra soluzione è quella di chiedere il cumulo dei contributi versati, il che porterebbe al calcolo della pensione secondo il sistema contributivo e non in base all’ultimo stipendio, il che si traduce, nella quasi totalità dei casi, in un dimezzamento della cifra percepita.

 

Nuove regole per apprendistato e contratti a termine

 La riforma del mercato del mercato del lavoro procede a tutta forza. Il ministro Fornero è più che mai convinta che l’apprendistato possa essere la cura per molti mali che affliggono questa parte dell’economia e, dopo la circolare dell’Inps che conferma gli sgravi fiscali per quelle aziende che scelgono di assumere forza lavoro in qualità di apprendisti, arrivano quelle del governo con le quali si procede alla regolamentazione di questo tipo di contratti.

In questi giorni si stanno susseguendo le notifiche istituzionali sia sull’apprendistato che sulle tipologie di contratto a termine che, partiti come strumento per rendere il lavoro più flessibile, si sono trasformati nell’emblema del precariato.

Precariato che è uno dei principali motivi che hanno fatto nascere la necessità di una riforma del lavoro, in quanto usati in maniera non sempre trasparente dalle aziende.

Nell’impostazione della riforma del mercato del lavoro voluta dal Ministro Fornero, sono previste tre tipologie principali di contratto di apprendistato: apprendistato professionalizzante (attraverso il quale si raggiunge una particolare qualifica professionale); l’apprendistato qualificante (una sorta di programma per ottenere un diploma) e l’apprendistato di alta formazione (affiancato a percorsi scolastici o universitari).

Il risultato di questa opera di diversificazione dei contratti di apprendistato e degli sgravi previsti dovrebbe essere un abbassamento del numero di disoccupati e, quindi, migliori prospettive per i giovani italiani.

Camusso e Fornero: completo disaccordo su riforma delle pensioni

 Se da un lato c’è il Ministro del Lavoro Elsa Fornero che, rispondendo al question time al Senato, assicura che ci sono tutte le garanzie per mettere in atto la riforma delle pensioni con la creazione di una Super Inps, nella quale andranno a confluire anche Inpdap e Enpals, e ribadisce che

Non ci sono effetti sulla sostenibilità del sistema previdenziale che resta rafforzato dall’ultima riforma pensionistica.

Dall’altro lato c’è la leader della CGIL Susanna Camusso che, per niente convinta da queste affermazioni, chiede un’immediata revisione della riforma delle pensioni del governo Monti:

Dobbiamo modificare, e ci rivolgiamo al nuovo governo, la legge sulle pensioni – ha detto -. E’ sbagliata, non solo perché bisogna rimediare alle ingiustizie immediate, come il caso degli esodati, ma perché il Paese non può reggere questa riforma che così stravolge la vita di tante persone.

I problemi da affrontare, continua Susanna Camusso nell’intervista rilasciata a RadioArticolo1, sono molteplici e toccano tutto il mondo del lavoro: dalla questione produttività – l’incontro con le associazioni delle imprese italiane si è concluso con un nulla di fatto – e a quello della collocazione degli impiegati delle amministrazioni provinciali, che, a causa del taglio delle provincie, si ritroveranno presto senza un lavoro.

 

Giovani e lavoro: pronti a qualsiasi impiego pur di lavorare

 I giovani fanno molto meno caso alle parole che vengono spese su di loro rispetto a quanto possano fare i giornalisti  o gli esperti del settore. In particolar modo ci riferiamo alla parola detta dal Ministro Fornero: choosy, termine inglese che letteralmente vuol dire schizzinoso, scelto per indicare quella categoria di ragazzi che non si accontentano di trovare un lavoro, ma che cercano, fin da subito, il lavoro della vita.

Ma un sondaggio rivela che i giovani italiani, nella maggior parte dei casi, sono tutt’altro che choosy, anzi sono disposti a tutti pur di trovare un lavoro. A rivelarlo è un sondaggio condotto da  Gfk Eurisko per conto dell’Osservatorio Giovani Editori.

Dal sondaggio è emerso che il 57% dei ragazzi italiani delle scuole medie superiori vuole trovare un lavoro, indipendentemente dalla sua tipologia, pur di entrare a far parte di questo mondo. E’ solo una piccola percentuale di ragazzi (il 12%) quella che aderisce di più alla definizione del Ministro Fornero e che vuole un impiego che sia il più possibile in linea con il percorso formativo affrontato.

La distinzione tra chi vuole un lavoro e chi, invece, vuole il lavoro passa proprio dal percorso formativo: il 63% dei ragazzi degli istituti tecnici e professionali accetterebbe tutto, contro il 54% degli studenti dei licei, leggermente più «choosy».

Proposte di sperimentazione pensioni e ricongiungimento

 La riforma del sistema pensionistico proposta e messa in pratica dal governo tecnico ha scontentato la maggior parte dei lavoratori, che sperano in una ulteriore revisione del sistema previdenziale che possa raggiungere due obiettivi fondamentali: garantire la pensione a tutti coloro che hanno versato i contributi  senza gravare in modo eccessivo sulle casse dello stato.

Una proposta in tal senso arriva da Pd e Pdl, secondo la quale una soluzione potrebbe essere quella di riportare in vita la possibilità, per i lavoratori che abbiano maturato almeno 35 anni di contributi, di andare in pensione a 58 anni. La proposta potrebbe concretizzarsi in una sperimentazione che si concluderebbe nel 2017: per i lavoratori dipendenti 58 anni (57 le donne) fino a tutto il 2015 e poi 59 (58 le donne) fino alla fine del 2017, ricevendo un assegno più leggero.

Secondo l’attuale normativa pensionistica adesso si può andare in pensione non prima di aver raggiunto 62 anni di età e un minimo di 42 anni di contributi (41 per le donne). In effetti i due standard per accedere alla pensione la fanno apparire come un miraggio, tanto che, secondo alcuni recenti sondaggi, i lavoratori non sono preoccupati sul da farsi una volta in pensione, bensì la loro preoccupazione è rivolta a come arrivare alla pensione.

Un altro problema annoso è quello del ricongiungimento pensionistico che, a causa di una riforma attuata durante il governo berlusconi, è diventato talmente esoso (si va da circa 50 mila euro a somme che vanno oltre i cento mila)

 

 

Aumenta l’occupazione nell’agricoltura

 In occasione del convegno su «Lavoro, occupazione, produttività» organizzato da Confagricoltura sono stati presentati i dati occupazionali del comparto riferiti al secondo trimestre del 2012, che mostrano come il settore agricolo, nonostante le difficoltà dell’economia italiana, sia una realtà in espansione in cui l’occupazione è in continua crescita.

Nel secondo trimestre del 2012 i dati Istat riportano un aumento del numero degli addetti all’agricoltura del 6,2%, che dimostra come il settore faccia da traino a tutti gli altri comparti economici che hanno fatto registrare, per lo stesso periodo, un calo tendenziale dell’occupazione dello 0,2%.

Circa un milione di lavoratori sono attualmente occupati nel comparto agricolo e si tratta perlopiù di lavoratori dipendenti, per un totale di cento milioni di giornate lavorative dichiarate e 9 miliardi di stipendi erogati, suddivisi in 935mila operai a tempo determinato, 117mila operai a tempo indeterminato e 35.500 impiegati.

Nel totale degli addetti all’agricoltura spiccano i giovani (il 28% sono persone di età compresa tra i 40 e i 49 anni, il 23% fino a 29 anni e il 6% che supera i 60 anni), che si concentrano, però, in un numero troppo esiguo di aziende: sono infatti solo 200mila le aziende del settore che sono riuscite ad impiegare nuova forza lavoro. Nello specifico un quarto della forza lavoro agricola si concentra nelle 500 aziende più grandi.

 

La Fornero interviene sulla questione agricola

 Tra le tante priorità del Governo c’è anche quella del risanamento del settore agricolo italiano, un settore in cui la crisi e la mancanza di occupazione pesano in modo particolare. A cercare di trovare una soluzione alle tante problematiche dell’agricoltura il Ministro Elsa Fornero, che è  intervenuta in questi giorni al convegno su «Lavoro, occupazione, produttività» di Confagricoltura.

In primo luogo il Ministro fa un passo indietro sull’abbattimento della contribuzione agricola nel Mezzogiorno, una delle proposte dell’ultima manovra, che non si è rivelato essere una soluzione adatta, anzi, potrebbe trasformarsi in una ulteriore fonte di sperequazioni.

Anche la proposta della stessa Confagricoltura – l’abbassamento delle aliquote per tutti – non è una strada percorribile, in quanto, data l’attuale situazione economica, ad aliquote più basse corrisponderebbe una riduzione delle agevolazioni. Secondo il Ministro del Lavoro la soluzione dovrebbe passare attraverso una riforma strutturale più profonda, che vada a colpire, in primo luogo, gli ammortizzatori sociali, i quali, nel settore dell’economia, non sempre sono utilizzati nel modo più corretto.

Ma non si tratta di una estensione di questi ammortizzatori, anche se era una delle prime possibilità prese in considerazione dal Governo tecnico, perché come spiega la Fornero:

avevamo riflettuto sulla possibilità di estendere la riforma degli ammortizzatori sociali al settore agricolo ma abbiamo deciso di no, non perché siamo soddisfatti della situazione attuale ma perché avrebbe allungato i tempi della riforma.

 

Sentenza della Cassazione stabilisce risarcimento per stress da troppo lavoro

 La sentenza è la 18211 della Corte di Cassazione, che nasce da un caso specifico: un portiere di notte è stato licenziato dopo aver chiesto, causa patologie lavoro correlato, uno spostamento in turni diurni. L’azienda, non avendo ulteriori disponibilità di orari, si è vista costretta a licenziare il portiere.

Secondo la Cassazione, che non contesta il licenziamento, l’azienda è però tenuta a risarcire al lavoratore 70mila euro, di cui 25mila per danno biologico.

La sentenza si basa sulla differenza che esiste tra il lavoro discontinuo e il lavoro effettivo. Nello specifico, il portiere di notte non può essere considerato lavoro discontinuo (che, in base alla sentenza è stato definito come un lavoro caratterizzato da attese non lavorate durante le quali il dipendente può reintegrare con pause di riposo le energie psicofisiche consumate), ma bensì un lavoro effettivo, intervallato, semmai, da momenti di minore attività durante i quali, però, il dipendente non può disporre liberamente del proprio tempo.

Riferendosi poi ad una precedente sentenza (la n. 21695 del 2008) la Cassazione aggiunge:

l’orario di lavoro deve rispettare i limiti imposti dalla tutela del diritto alla salute, si applica anche alle mansioni discontinue o di semplice attesa.

In base a queste valutazioni, l’azienda che ha deciso di licenziare il portiere di notte, pur non essendo obbligata al reintegro, è tenuta a pagare un risarcimento di 47mila euro di straordinari notturni e mancate ferie, più 25mila euro per danno biologico accertato nella misura del 15%.

Inps: confermati sgravi fiscali per apprendistato

 L’Inps, con la circolare 128/2012, ha confermato la possibilità di accesso ad agevolazioni contributive del 100% per le aziende che dal 2012 al 2016, assumeranno degli apprendisti. Potranno avere accesso a questa agevolazione, però, solo le imprese che hanno meno di nove addetti.

La circolare integra la legge n. 183 del 12 novembre 2011, legge che ha il preciso intento di rilanciare l’apprendistato come forma contrattuale più adeguata all’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.

Lo sgravio previsto riguarda la totalità dei contributi che l’azienda dovrebbe versare per l’apprendista e ha la durata di tre anni. Al termine dei primi tre anni di svolgimento del contratto le aziende inizieranno a pagare i contributi Inps con l’aliquota del 10%, quella già prevista per questa tipologia di contratto.

Nella circolare si precisa che le aziende che vogliono accedere a questa agevolazione devono presentare una dichiarazione sugli aiuti «de minimis» (dpr n. 445/2000), certificazione nella quale si dichiarano, cioè, eventuali incentivi «de minimis» eventualmente già fruiti.

Si ha diritto all’agevolazione nel momento in cui l’Inps attribuisce all’azienda il codice «4R», attraverso il quale si potrà accedere a sgravi che riguardano il periodo precedente (a decorrere dal 1° gennaio 2012) nel caso siano stati stipulati contratti di apprendistato.

Secondo molti degli esperti del settore le agevolazioni contributive potrebbero essere il volano per il rilancio del mercato del lavoro giovanile.

Top manager inglesi: stipendi più alti del 27%

 A determinare lo strabiliante aumento non sono stati i bonus o aumenti di stipendio, ma una nuova voce che compare da qualche tempo nelle voci dei contratti dei top manager delle aziende quotate alla London Stock Exchange: gli incentivi a lungo termine derivanti dall’andamento dei titoli societari in borsa.

L’aumento medio stimato dalla Income Data Services si aggira intorno ai 4 milioni di sterline (circa 5 milioni di euro) per ogni presidente, amministratore delegato e manager.  Come è stato possibile visto il freno messo alle principali voci di guadagno dei top manager?

La spiegazione è piuttosto semplice: questi incentivi a lungo termine non generano profitti per i top manager solo nel caso in cui i titoli delle aziende che a loro fanno capo vanno bene in borsa, ma anche se i titoli, pur non andando bene, vanno comunque meglio di quelli delle altre aziende dello stesso settore.

Un altro elemento che ha concorso nel generare questo tipo di aumento è stato il fatto che l’introduzione degli incentivi è avvenuta appena dopo i crack finanziari del 2008, periodo che ha portato una notevole risalita dei titoli quotati sulla borsa londinese.

Steve Tatton, autore del rapporto precisa che:

Se gli azionisti saranno compiaciuti nel vedere un rallentamento degli elementi più classici dei compensi, queste cifre rivelano che i compensi dei manager possono lo stesso crescere significativamente come risultato di un complesso cocktail di incentivi a lungo termine.