Come finanziare un’impresa

 Ogni azienda, al fine di poter svolgere la propria attività, ha bisogno di disponibilità di natura finanziaria. La difficoltà predominante che sorge è una: essa si basa nell’individuazione di quelle forme di finanziamento che risultino più adeguate, dal momento che ci si può trovare dinanzi ad un ampio ventaglio di possibilità di scelta. Occorre precisare che queste modalità di finanziamento sono totalmente vincolate, oltretutto, dalle dimensioni e dalla veste giuridica dell’impresa in questione. Tuttavia, volendo affrontare la questione in maniera più generica, è possibile rintracciare due tipi differenti di finanziamenti. Queste due modalità sono:

il capitale proprio;

il capitale di terzi.

Nell’analisi di queste due modalità di finanziamento, non sfuggiranno alcuni parametri relativi alla forma del prestito scelto. Da questi parametri scelti all’inizio dipenderanno le modalità di restituzione del capitale ricevuto inizialmente. Si tratta di elementi, economici e logistici, che caratterizzano il lavoro di un’impresa.

Modalità di finanziamento

A tal proposito, appare necessario analizzare nei dettagli, in cosa consistono queste modalità di finanziamento e come si finanzia un’impresa:

Capitale proprio

Il capitale proprio è rappresentato dai conferimenti perfezionati dall’imprenditore individuale o dai soci della società, al momento della costituzione dell’azienda e, successivamente, attraverso eventuali aumenti di capitale, nonché dagli utili generati dalla gestione aziendale. Il capitale proprio è conferito a tempo indeterminato. Gli aumenti di capitale sono nominati anche capitale di apporto, e si manifestano quando l’imprenditore o i soci prendono la decisione di dare luogo a nuovi investimenti e dunque, stabiliscono di effettuare un nuovo incremento di mezzi di natura finanziaria. Gli utili generati dalla gestione aziendale, da par loro, dal momento che non sono prelevati dall’imprenditore o dai soci e rimangono all’interno dell’impresa, sono ribattezzati con il nome di capitale di risparmio.

Capitale di terzi

Può succedere sovente che il capitale proprio non è adeguato al finanziamento dell’intera attività di un’azienda. Per questa ragione è possibile fare un adeguato ricorso al capitale di terzi, ovvero a finanziamenti effettuati da terze parti. I ‘terzi’ diventano, dunque, creditori dell’impresa, a tempo determinato, dal momento che l’azienda deve restituire il denaro attenendosi alle scadenze concordate e in differenti modalità. Qualora la scadenza non superi i 12 mesi è possibile parlare di prestiti a breve termine; nel caso in cui la durata vada da uno a cinque anni è possibile parlare di prestiti a medio termine; nel caso in cui la durata sia superiore ai 5 anni parleremmo invece di prestiti a lungo termine. Il capitale di terzi contempla debiti di finanziamento, stipulati dall’impresa al fine di ottenere una somma di denaro, e debiti di funzionamento, rappresentati dalle dilazioni di pagamento nei confronti di fornitori di beni o servizi.

Scandagliando tra i finanziamenti di terzi noteremo che quello più diffuso rimane, per diverse imprese, il prestito bancario, quale ad esempio il mutuo. Il mutuo consiste nel ricevere una somma di denaro, da restituire in tempi stabiliti dalle parti.

Prestiti e interessi

Una volta arrivati alla scadenza, decorso dunque il periodo di tempo in questione, l’impresa dovrà provvedere alla restituzione della somma di denaro, versando un interesse come compenso. In questi casi, le grandi aziende fanno riferimento anche all’uso di prestiti obbligazionari.

I prestiti obbligazionari sono molto simili ai prestiti bancari. Tuttavia, nel caso dei prestiti obbligazionari, il prestito viene concesso da persone fisiche, enti o altre società.

In questo contesto, l’azienda deve versare interessi periodici e, una volta decorso il prestito, deve restituire il capitale ricevuto inizialmente.

I debiti di funzionamento, al contrario, non si configurano come un vero e proprio spostamento di denaro. Molto più semplicemente, i debiti di funzionamento si configurano come un credito dal fornitore, il quale consente all’impresa una dilazione del pagamento priva di interessi.

Nessun contagio dall’Italia secondo Monti, anche se la situazione resta grave

 Ieri il commissario Ue agli Affari economici e monetari, Olli Rehn ha commentato in modo duro i dati pubblicati della Commissione Europea sulla situazione economica dell’Unione, con particolare riferimento all’Italia, un paese ancora troppo debole e incapace, data la situazione, di far fronte a eventuali scossoni dei mercati.Non solo: secondo Rehn l’Italia e la crisi delle sue banche potrebbero contagiare anche il resto dei paesi d’Europa.

Ma Mario Monti, che si trova a Londra in veste di Ministro degli Esteri, ha replicato altrettanto duramente dicendo che l’Italia, nonostante il perdurare delle sue difficoltà, non può contagiare nessuno. La strada per la ripresa è lunga, molto lunga, ma l’Italia ha comunque intrapreso un cammino, grazie anche alle riforme varate dal governo tecnico, che la porterà ad uscire dalla recessione.

► Senza Imu niente pareggio dei conti

Ma, come emerge anche dai dati del DEF, il documento sulle previsioni macroeconomiche del Ministero dell’Economia, ci sono ancora diversi nodi da sciogliere: prima di tutto la necessità di un’ulteriore manovra correttiva che dovrebbe essere fatta tra il 2015 e il 2017. La cifra? Oltre 20 miliardi, 60 se non verrà confermata l’Imu.

Un altro sforzo necesario, secondo il premier uscente,  per condurre l’indebitamento tendenziale dal 2,5% del pil all’1,5% programmatico nel 2015, dal 2,1% allo 0,9% nel 2016 e dall’1,8% allo 0,4% nel 2017.

Record di aziende chiuse nel primo trimestre del 2013

 La definizione di anno peggiore dall’inizio della crisi sembra non calzare più al 2012: stando ai nuovi dati sulle aziende italiane questa definizione è molto più indicata per l’anno in corso, anche se sono passati poco più di tre mesi dal suo inizio.

► Le previsioni di Intesa Sanpaolo sulle imprese

I dati di cui parliamo sono quelli del Cerved, gruppo specializzato nell’analisi delle imprese e nella valutazione del rischio di credito, che ha analizzato le istanze di fallimento registrate presso le Camere di commercio: dal primo gennaio all’8 di aprile in Italia sono state chiuse ben 4.218 imprese, il 13% in più rispetto allo stesso periodo del 2012.

Un dato preoccupante già di per sé ma che rende conto di una situazione particolarmente drammatica se i dati sono confrontati con quelli relativi al 2012: durante lo scorso anno hanno chiuso i battenti 12.442 aziende, più di mille al mese, circa 34 al giorno.

Su base annua il 2012 ha rilevato un aumento del 2,3% di fallimenti sul 2011 e il 32% in più rispetto al 2009, l’anno di inizio della crisi.

Continuando a confrontare i dati emerge che le 34 istanze di fallimento al giorno del 2012 sono diventate 43 nei primi tre mesi del 2013. Un aumento cospicuo che tocca tutti i settori: industria, costruzioni, servizi, nessuno escluso.

► Pubblicato in GU il decreto che sblocca il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni

Secondo Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved Group

Le rilevazioni continuano a consegnare un quadro di crisi che non accenna a cambiare. Quel che è peggio è che sulle istanze di fallimento la crisi avrà un’onda lunga, con effetti che si sentiranno con ogni probabilità anche quando arriverà la tanto agognata ripresa. C’è da aspettarsi una situazione in peggioramento perché ci sono indicatori più tempestivi delle istanze di fallimento, che possono anche esser avviate settimane prima della registrazione, che continuano a dare segnali negativi.

Senza Imu niente pareggio dei conti

 La Commissione Europea ha mostrato, con il suo rapporto sugli squilibri economici dell’Unione, come l’Italia sia ancora in una situazione di rischio che potrebbe contagiare anche il resto d’Europa. Anche se non a tinte così forti, il DEF, il Documento di economia e finanza presentato da Mario Monti e approvato dal CDM, conferma queste problematiche: debito/Pil al 130,4% nel 2013, mai così alto dai tempi del fascismo, con un deficit pari al 2,9%.

► Il rischio dell’Italia sul deficit

Ma, secondo Monti, anche l’Ocse è della stessa opinione, l’Italia ha iniziato ad intraprendere la strada della ripresa: nel testo si legge che il pareggio di bilancio strutturale sarà raggiunto per il 2013 e il rapporto tra il debito e il Prodotto interno lordo (Pil) inizierà a ridursi già dal 2014.

Il premier uscente, nella conferenza stampa che ha accompagnato la presentazione del DEF, ha ribadito che solo continuando sulla strada dell’austerity si può sperare di uscire dalla crisi, anzi, se si dovesse allentare il controllo sulla disciplina finanziaria il paese potrebbe di nuovo ripiombare nella recessione.

Il DEF, come spiegato anche da Vittorio Grilli, mette in evidenza un problema fondamentale sulla strada del pareggio di bilancio: l’Imu. La tassa sugli immobili, infatti, scadrà nel 2015 (anno in cui finisce la fase sperimentale) e, quindi, verrà a mancare dalle casse dello Stato un ingente introito:

► Confindustria critica duramente l’operato del governo tecnico

qualora la fase sperimentale dell’Imu non dovesse essere confermata, futuri governi dovranno provvedere alla sostituzione dell’eventuale minor gettito con interventi compensativi. Senza il balzello dell’Imu il pareggio di bilancio è a rischio.

La crisi italiana potrebbe contagiare l’Europa

 Nel rapporto presentato dalla Commissione Europea sugli squilibri economici dell’Unione, emerge un dato che fa molto riflettere: l’Italia, nello specifico, è ancora in una situazione molto rischiosa e questo perdurare della crisi potrebbe avere degli effetti anche su tutto il resto dei paesi dell’Unione.
► Abbattere le barriere economiche europee per far crescere l’Europa

E’ l’effetto contagio, tanto temuto soprattutto dopo il collasso di alcuni paesi, come la Grecia e Cipro, che sembra essere trainato dalle banche che continuano ad indebolirsi e, quindi, sono incapaci di essere gli attori principali del risanamento economico.

In Italia persistono squilibri macroeconomici che richiedono monitoraggio e azione decisiva. L’andamento dell’export, la perdita di competitività e il debito elevato in una situazione di crescita condizionata richiedono attenzione per ridurre i rischi di effetti avversi.

Ciò che maggiormente spaventa gli analisti della commissione sono le condizioni del debito pubblico che rendono l’Italia debole e incapace di far fronte ad eventuali fluttuazioni dei mercati finanziari. Il che rende necessario proseguire sulla strada dei rinnovamenti strutturali che possano ridurre il rapporto debito/Pil.

Urgenti, secondo Bruxelles, soprattutto misure mirate alla riduzione della pressione fiscale per favorire la crescita e l’applicazione delle riforme adottate negli ultimi mesi per sostenere il consolidamento dei conti e liberare il potenziale di crescita. Inoltre, il rapporto evidenzia una sofferenza delle imprese italiane che sono troppo specializzate e low-tech, incapaci, quindi, di reggere la concorrenza.

► Krugman parla dei problemi dell’Europa

Un problema che può essere risolto solo con incentivi per la ricerca e lo sviluppo e per il miglioramento dell’istruzione.

Indagine europea sulla ricchezza delle famiglie: in Italia una su sei è povera

 Una grande indagine alla quale ha lavorato la Banca Centrale Europea insieme ad altre 15 banche centrali dei paesi dell’Unione, tra le quali figura anche la Banca d’Italia, che restituisce un quadro completo della situazione reale delle famiglie dei paesi partecipanti, mettendo in luce contraddizioni e anomalie.I dati sui quali è stata condotta l’indagine risalgono al 2010, ma sono comunque indicativi di come sia la reale situazione delle famiglie europee.

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La ricchezza delle famiglie europee

Il dato che balza immediatamente all’occhio di questa prima indagine europea sulla ricchezza delle famiglie è che, secondo gli economisti che l’hanno redatta, italiani e tedeschi godrebbero delle stesse ricchezze, anche se c’è un gap, e neanche piccolo, tra gli stipendi tricolore e quelli dei cittadini della Merkel: 20 mila euro annui di differenza. come si spiega allora la parità di ricchezza?

Dipende da quello che hanno lasciato i genitori, i nonni e le generazioni precedenti, perché i numeri che riguardano i movimenti dei conto corrente sono particolarmente allarmanti.

Continuando a spulciare i dati che riguardano il nostro paese, si evince che le famiglie italiane sono tra quelle che hanno i redditi più bassi, in nona posizione su un totale di 15 paesi esaminati,  con una percentuale di povertà più alta della media e tra le maggiori in assoluto, pur rimanendo nelle alte posizioni delle classifiche che riguardano i lasciti del passato.

► La crescita in Europa e ai livelli del secolo scorso

Una famiglia su sei in Italia vive sotto la soglia di povertà, un numero che si scosta in modo evidente dalla media degli altri paesi: nell’indagine i poveri sono identificati in base alla media di reddito sotto la quale si entra nella fascia della povertà (diversa per ogni paese, in Italia è fissata a 8.500 euro annui), in Italia sotto questa soglia c’è il 16,5% della popolazione, in forte contrasto con il 13% di media per gli altri paesi. In Francia, ad esempio, i poveri sono l’8,9% del totale della popolazione, mentre in Germania sono il 13,4%.

L’indebitamento delle famiglie

Una nota positiva può essere trovata per quanto riguarda l’indebitamento delle famiglie: le italiane sono le meno indebitate dell’area euro, con una percentuale del 25,2% del totale, mentre negli altri paesi la media si attesta al 43,7%. A essere maggiormente indebitate le famiglie cipriote e dei Paesi Bassi, paesi che fanno registrare una percentuale di indebitamento del 65%.

Nei 15 paesi dell’indagine, quindi, si ha una percentuale del 43,7% di famiglie indebitate: il 23,1% ha un mutuo, il cui valore medio è di circa 68.400 euro, e il 29,3% altri tipi di credito, per un valore medio di 5.000 euro.

► In generale, una famiglia su due non ha le finanze a posto

Le proprietà immobiliari

Il mattone è da sempre uno dei beni rifugio prediletto dagli italiani,  e questa considerazione può essere tranquillamente estesa anche a tutti gli altri paesi che hanno collaborato all’indagine europea sulla ricchezza delle famiglie: in Europa, infatti, il 60,1% dei cittadini possiede una casa di proprietà e, tra questi, il 23,1% ne possiede anche una seconda.

Tra i possessori di proprietà immobiliari il 40,7% del totale è già proprietario della prima casa, che ha un valore medio pari a 180.300 euro (per le seconde case il valore diminuisce fino a 103.400 euro), mentre il 19,4% sta ancora pagando le rate del mutuo per il suo acquisto.

Per quanto riguarda la distribuzione sul territorio dei proprietari di prime case è la Slovacchia a detenere il primato, con l’80% dei cittadini, seguita da Germania (44,2%) e Austria (47,7%). I proprietari di seconde case sono particolarmente numerosi a Cipro, in Grecia e in Spagna (oltre il 35%) con l’Italia al 24,9%.

Le altre proprietà delle famiglie europee

Automobili per il 75,7% dei cittadini, il cui valore medio si attesta intorno ai 7.000 euro; piccole imprese, che molto spesso danno lavoro anche a uno o più membri della famiglia, per l’11,1%, dal valore medio di 30.000 euro.

► La casa non è una spesa per tutte le famiglie italiane

Come investono le famiglie europee

Le famiglie italiane prediligono investire in Titoli di Stato, e soprattutto nei titoli italiani, che li scelgono nel 15% dei casi. Per quanto riguarda il resto dei paesi dell’indagine, invece, la percentuale di coloro che investono in titoli di stato, nazionali o esteri, è piuttosto bassa: solo il 5%.

I tedeschi, ad esempio, prediligono i fondi comuni, scelti nel 17% dei casi a fronte di una media europea dell’11,4 (gli italiani li scelgono nel 6,3 per cento dei casi). Le azioni piacciono molto ai francesi (14% del totale degli investimenti delle famiglie francesi) mentre in Italia questo investimento è scelto solo dal 4,6% delle famiglie. La media europea degli investimenti in azioni e del 10,1 per cento.

Confindustria critica duramente l’operato del governo tecnico

 Si è consumato in diretta radio il duello tra Vincenzo Boccia, vicepresidente di Confindustria e il ministro uscente del welfare Elsa Fornero, che ha preso le parti sia del suo operato su pensioni e mercato del lavoro che quello di tutto il resto dei suoi colleghi.

► Mastrapasqua chiede una riforma del welfare

Confindustria, dalla voce di Boccia, fa sapere che le condizioni del paese sono peggiorate rispetto al 2011, anno in cui il governo tecnico di Mario Monti è stato chiamato a rimettere in sesto la disastrosa situazione.

Lo stato dell’economia reale è molto peggio di quel novembre e proprio per questo occorre una grande consapevolezza e la corresponsabilità di tutti di prendere consapevolezza di un’emergenza economica che il Paese vive da troppo tempo.

Questo è il pensiero di Confindustria, secondo la quale l’Italia sarebbe in una economia di guerra con il reddito procapite che è arrivato ai livelli del 1996. I problemi sono sotto gli occhi di tutti e Boccia chiede al governo di prendersene carico subito evitando soprattutto di peggiorare la situazione con delle nuove elezioni.

Immediata e durissima la reazione di Elsa Fornero che difende strenuamente ciò che ha fatto:

Il governo Monti è arrivato con la prospettiva realistica, cioè con l’alta probabilità di una crisi finanziaria e il compito che gli era stato dato era di allontanare questa prospettiva tragica: questo il governo ha fatto. Siamo stati accusati di essere un governo di austerità: mi ci riconosco in una riforma delle pensioni che è stata severa, ma voglio difendere la riforma del lavoro che guarda al futuro e crea le premesse perché si possa parlare di ripresa.

► La riforma Fornero non piace alle imprese più piccole

Quindi, in sostanza, il ministro dice di aver fatto, e con lei anche tutti gli altri, quello che si poteva fare in un paese ormai al limite del fallimento, e ribadisce anche che il problema degli esodati non è dipeso dalla sua riforma, ma da una mancanza di conoscenza della situazione reale del paese da parte del governo precedente dell’ammontare degli accordi aziendali stipulati.

Il potere d’acquisto crolla ai livelli del 1995

 Siamo tornati ai livelli del 1995. Le famiglie italiane non hanno più soldi per le spese e, di conseguenza, per il risparmio. Secondo i dati diffusi dall’Istat, infatti, nel 2012 il potere d’acquisto delle famiglie si è ridotto di un ulteriore 2,1% che si trasforma in una perdita del 4,8% del potere d’acquisto reale se si aggiungono i dati riguardanti l’andamento dell’inflazione.

► Consumi ancora in calo: iniziano a soffrire anche i discount

Periodo particolarmente difficile è stato il quarto trimestre del 2012, periodo nel quale il potere d’acquisto delle famiglie italiane si è ridotto dello 0,9% rispetto al trimestre precedente e del 5,4% nei confronti dello stesso periodo del 2011.

Stessa situazione anche per quanto riguarda la propensione al risparmio, attestatasi nel 2012 all’8,2%, percentuale che mostra un calo di 0,5 punti percentuali rispetto al 2011. In questo caso, un dato così basso non si registrava dal 1990.

Anche per quanto riguarda la propensione al risparmio c’è da notare come il periodo peggiore sia stato l’ultimo trimestre del 2012: 8,3%, il che significa una diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e di 0,9 punti rispetto al corrispondente trimestre del 2011.

► Gli italiani non vogliono più investire

Il motivo di questa riduzione della propensione al risparmio è nel gap che si è formato tra la quantità di reddito disponibile e la diminuzione della spesa per i consumi, rispettivamente del 2,1% e dell’1,6%.

Finalmente il prezzo dei carburanti inizia a scendere

 Benzina e gasolio stanno scendendo di prezzo. E’ l’effetto del calo delle quotazioni internazionali che, molto probabilmente anche a causa delle diverse polemiche che si stanno alzando in questi giorni sulle maggiori compagnie petrolifere, sta facendo abbassare anche i prezzi dei carburanti al distributore.
► GDF indaga sulle società petrolifere per truffa a danno consumatori

Sono sopratutto i cali delle quotazioni che si stanno registrando già da qualche tempo nell’area del Mediterraneo, 45 euro per mille litri di benzina negli ultimi quattro giorni di mercato) hanno indotto le compagnie petrolifere a rivedere i prezzi applicati ai clienti finali.

Eni è stata la più coraggiosa e ha dato un taglio netto al prezzo della benzina applicato nei suoi distributori, già venerdì scorso la compagnia ha tagliato di un centesimo il prezzo al litro della benzina e di tre quello del gpl, al quale si è aggiunto ieri il taglio di altri 2 centesimi sul gpl e d altrettanti sul diesel.

Anche altre compagnie si sono aggiunte a questa corsa al ribasso, anche se con meno enfasi: Ip e Tamoil (-1 centesimo sulla benzina); Q8 e Shell (-1 centesimo sulla benzina e -1 sul diesel); Totalerg e Esso (-0,5 sulla benzina e altrettanto sul diesel).

► Nuova legge per la trasparenza del prezzo dei carburanti

In generale la media del prezzo dei carburanti in Italia è di 1,857 euro/litro per la “verde“, 1,757 per il diesel e 0,824 per il gpl, un andamento al ribasso trainato anche dai prezzi nettamente inferiori che applicano le pompe bianche.

Pubblicato in GU il decreto che sblocca il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni

 I ministri hanno dovuto lavorare anche nel week end per giungere ad un accordo sul decreto per lo sblocco del pagamento dei debiti scaduti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese italiane: le riunioni straordinarie hanno prodotto un nuovo testo che è stato approvato e pubblicato questa mattina in Gazzetta Ufficiale.

► Decreto per il piano biennale di restituzione del debito delle Pubbliche Amministrazioni

Il testo presentato originariamente ha subito delle importanti modifiche, prima fra tutte quella sui tempi del pagamento del debito: si passa da un piano biennale ad uno annuale con lo sblocco immediato di 40 miliardi di euro, da erogarsi entro 12 mesi.

Il decreto firmato dal Consiglio dei Ministri prevede che, a partire dal 15 maggio tutte le Amministrazioni Pubbliche sapranno di quanto dispongono per iniziare ad effettuare il pagamento del debito, eccezion fatta per Comuni e Province che potranno iniziare a pagare già da domani (9 aprile).

Anche per il prossimo anno le date sono più o meno le stesse, gli enti potranno fare richiesta di anticipi dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp) entro il 31 gennaio 2014 e le anticipazioni saranno elargite a partire dal 15 di febbraio. Per il 2014 il decreto prevede anche un allentamento del Patto di Stabilità 2014.

► Nessun anticipo dell’addizionale Irpef nel decreto per il pagamento dei debiti delle Pubbliche Amministrazione

Inoltre le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo, entro 20 giorni dalla data di pubblicazione in GU del decreto, di iscriversi alla piattaforma telematica per la certificazione dei crediti. I dirigenti che non lo faranno saranno passibili di sanzioni piuttosto pesanti: il decreto prevede 100 euro di multa per ogni giorno di ritardo.