La popolazione mondiale salirà a 11 miliardi nel 2100

 La popolazione mondiale potrebbe aumentare e raggiungere gli 11 miliardi di persone, ovvero quasi 800 mila in più in confronto alle previsioni fatte nel 2011, nel 2100.

Stando a una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington per le Nazioni unite, a spingere l’aumento demografico è soprattutto l’Africa.

L’Italia, però, è in controtendenza e continua sulla strada della ‘crescita zero’: entro il 2100 – in base al rapporto Onu – perderà più di 6 milioni di abitanti.

Ed entro il 2050 un cittadino italiano su due sarà ultrasessantenne, con l’aspettativa di vita in costante aumento, in aumento a 82,3 anni nel 2015 e ancora a 93,3 anni a fine secolo.

Ci sono però anche casi in cui l’effettivo livello della fertilità sembra essere aumentato negli ultimi anni, in altri casi, la stima precedente era troppo bassa, come ha detto John Wilmoth, direttore della divisione popolazione del Dipartimento per gli Affari economici e sociali, il quale ha presentato il rapporto al Palazzo di Vetro di New York.

Le piccole distinzioni nella traiettoria della fertilità nei prossimi decenni potrebbero avere importanti conseguenze per quanto riguarda le dimensioni, la struttura e la distribuzione della popolazione a lungo termine.

Gran Bretagna di nuovo contro Google

 Il governo inglese non sembra per nulla convinto del fatto che Google abbia pagato il giusto ammontare di tasse per quello che ha fatturato tra il 2006 e il 2001. Il nodo della questione è sempre lo stesso: Google ha sede in Irlanda e utilizzerebbe proprio questo stratagemma per avere delle condizioni fiscali agevolate sugli introiti derivanti dalla pubblicità in terra inglese.

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A chiedere una nuova verifica è stato il Public Accounts Committee, commissione interpartitica che controlla le finanze pubbliche, che ha parlato di una evasione fiscale intraprendente. Secondo la Commissione, e la sua teoria è suffragata anche da ex dipendenti del colosso di Mountain View, i dipendenti di Google su suolo inglese si occuperebbero anche della vendita degli spazi pubblicitari sul motore di ricerca e, quindi, per questi guadagni dovrebbero pagare le tasse al fisco inglese, e non a quello irlandese.

Le cifre riportate dalla Commissione parlano di un guadagno di 18 miliardi di dollari tra il 2006 e il 2011, per il quale sono stati pagati solo 16 milioni di dollari in tasse.

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La posizione di Google rimane sempre la stessa. Come ha dichiarato una portavoce la società

rispetta tutte le norme fiscali nel Regno Unito, e sono i politici che fanno queste regole. Il rapporto dimostra che la Commissione vorrebbe che le società internazionali pagassero più tasse dove sono i clienti, ma le regole non funzionano così.

La Banca Mondiale abbassa le stime di crescita dell’economia mondiale

 Precedenti stime avevano dato per quasi certa una crescita economica mondiale per il 2013 del 2,4%. La cifra era stata resa nota ad inizio anno e prevedeva in lieve miglioramento della situazione rispetto al 2012, quando il Pil mondiale era cresciuto del 2,3%.

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Ma nulla da fare. Secondo la Banca Mondiale, dato quanto si è registrato fino adesso, ha abbassato la stima portandola al 2,2%, quindi peggio del 2012. I problemi maggiori si riscontrano nell’Eurozona, dove il prodotto interno lordo è visto in calo dello 0,6%, un peggioramento di mezzo punto percentuale rispetto alle precedenti stime (-0,1%).

Per il 2014 la Banca Mondiale prevede una crescita del pil dello 0,9% e dell’1,5% nel 2015, grazie soprattutto ai paesi in via di sviluppo che stanno facendo registrare una progressione del pil del 5,1%, che alzano la media di quelli più sviluppati, dove il pil dovrebbe mostrare un aumento dell’1,2%.

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Secondo la Banca Mondiale gli Stati Uniti hanno fatto meglio di quanto stimato e il pil di quest’anno dovrebbe registrare una crescita del 2% rispetto al +1,9% previsto a gennaio. Male, invece Cina e India, paesi per i quali l’istituto ha rivisto al ribasso il pil: +7,7% quest’anno contro il +8,4% per la Cina e +5,7% contro il +6,1% stimato in precedenza per l’India.

Grecia declassata a Paese emergente da MSCI

MSCI diminuisce il livello della Grecia, da Paese sviluppato a Paese emergente. Non si può più parlare di Paese sviluppato, dunque. La decisione non è stata presa per il fatto che il governo guidato da Samaras ha chiuso l’unica televisione di Stato. La Grecia non è un Paese sviluppato, poiché il suo mercato è in netto ribasso e non è più in grado di soddisfare l’offerta. Di conseguenza, il downgrade è stato declassato a mercato emergente.

Per un Paese che ha uno status di ‘avanzato’ si tratta di novità assoluta. La Grecia è il primo di questa fascia ad essere considerato ora un Paese con uno status di ‘emergente’. Colpa del crollo del suo indice azionario del -83% avvenuto dal 2007 ad oggi.

A prendere questa ‘importante’ decisione è stata la società newyorkese MSCI Inc, specializzata nello stilare indici azionari in tutto il mondo. La crisi economica attanaglia sempre di più il Paese e le misure di austerity non fanno che peggiorare la situazione. Prova ne é la sospensione delle trasmisioni della tv pubblica che comporta peraltro un licenziamento di 2800 dipendenti.

Piove sul bagnato, dunque, per Atene e per il Governo Samaras. Gli interventi in chiave europea dovranno tenere conto di quest’ennesima batosta.

E se fosse l’euro la causa della crisi?

 Qualche giorno fa Bloomberg ha pubblicato un articolo scritto da tre economisti di fama mondiale che, cercando le ragioni alla crisi che sta attanagliando alcuni dei paesi europei, concordano nel dire che la moneta unica, così come è stata concepita e recepita dai diversi paesi, potrebbe decretare la fine dell’Unione Europea.

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I tre economisti, infatti, partendo dal presupposto che la crisi si è sentita di più in quei paesi nei quali l’economia era già piuttosto debole – Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e Ciproconcludono che il problema sta proprio nel fatto che questi paesi in difficoltà non possono recuperare competitività sui mercati perché non possono svalutare la moneta.

Questo finirà per acuire le disuguaglianze tra il nord e il sud dell’Europa, finendo anche per alimentari nuovi sentimenti anti-euro e anti-unione.

È necessario, proseguono gli economisti, fissare il tasso di cambio nominale ed eliminare il rischio valutario, cercando di far convergere, grazie all’euro, le due economie europee verso un punto comune in modo da facilitare l’affluenza di capitali dai paesi con un surplus commerciale verso quelli in difficoltà.

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In sostanza, l’euro, stando a quanto dicono questi economisti, non avrebbe fatto nulla di quanto avrebbe dovuto, ma avrebbe solo acuito il divario di competitività già presente tra il nord e il sud dell’Europa.

E’ boom della pet economy

 Crisi e grande recessione non possono nulla davanti all’amor per gli animali. Succede prevalentemente negli Stati Uniti, ma il business della pet economy è in crescita a livello globale. E, nel caso si volesse investire nei prossimi mesi, è proprio sul business degli animali che si dovrebbe puntare per veder lievitare il proprio rendimento.

Come riportato da diversi quotidiani in questi giorni, infatti, solo negli Stati Uniti il business della pet economy ha visto un incremento del 30%, con una spesa che è arrivata a toccare i 53 miliardi di dollari. Tanto per capire la dimensione del valore della pet economy, questa cifra è uguale al Pil della Tunisia.

Le spese sostenute dai proprietari di animali domestici sono le più disparate: si va dal tapis roulant (che arriva a sfiorare un costo di 400 dollari) al traduttore dei miagolii del gatto in inglese (costo di circa 220 dollari). Certo, non tutti sono disposti a spendere tali cifre per questi oggetti, ma ci sono comunque delle spese ‘necessarie’ al benessere di cani e gatti e altre tipologie di animali per i quali i proprietari vogliono il meglio.

E quindi per cibo, vaccinazioni, visite e animal sitting non si bada a spese. Tanto che anche un hedge fund di New York e anche alcuni fondi di San Francisco stanno investendo proprio in questa tipologia di attività.

 

Problemi sull’accordo fiscale tra Italia e Svizzera

 E’ in posizione di stallo la trattativa fiscale tra Italia e Svizzera atta alla regolarizzazione dei depositi in nero nelle banche elvetiche. Tutto è congelato.

Il Ministro delle Finanze della Confederazione, Eveline Widmer-Schlumpf ha dichiarato che è tutto fermo. Una situazione di stallo che, dunque, provoca numerose problematiche per la Svizzera. Nello specifico i problemi si riversano nell’area del Canton Ticino, dal momento che fino a quando la Confederazione resterà sulle black list italiane, le aziende elvetiche rimarranno discriminate se vorranno lavorare oltre i propri confini.

Sembrava, tuttavia, che perima delle ultime elezioni politiche l’accordo di doppia imposizione sugli averi italiani depositati nelle banche elvetiche, potesse venire concluso in quattro e quattr’otto e che, con i soldi provenienti dall’intesa, si potesse evitare, addirittura, il pagamento dell’Imu.

Era questa la previsione di Silvio Berlusconi. Ciò, secondo gli esperti, si è rivelata essere una Promesse da campagna elettorale, alla quale non sono seguiti i fatti.

Perché gli Usa ora stanno meglio economicamente

 “Crediamo che il nostro rating attuale ’AA’ prenda già in considerazione una minore capacità da parte degli eletti degli Stati Uniti a reagire rapidamente ed efficacemente alle pressioni delle finanze pubbliche nel lungo termine, in confronto con i funzionari di rating sovrani più elevati e ci aspettiamo ripetuti dibattiti sulla questione dell’aumento del tetto del debito”, ha detto l’agenzia in un comunicato”.

Con queste parole Standard & Poor’s ha dichiarato che il rating degli Stati Uniti è finalmente stabile. Un miglioramento che si deve alle evoluzioni in positivo inerenti al gettito fiscale, nonché alle misure utilizzate al fine di risolvere i problemi di bilancio a lungo termine.

Due punti a favore di Obama & Co., che non hanno fatto altro che migliorare le prospettive per gli Stati Uniti.

Nel frattempo, le dirette concorrenti di Standard & Poor’s (ovvero le agenzie rivali Moody’s e Fitch) attualmente detengono entrambe una tripla A sul rating degli Stati Uniti.

L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha dunque optato per l’innalzamento dell’outlook sul rating sovrano degli Usa a “stabile” da “negativo”. Il giudizio sul merito di credito della prima economia mondiale rimane ad AA+. La perdita dello status di massima affidabilità creditizia (in altri termini inteso come il rating AAA) successe nell’estate di due anni fa. Il rating di breve termine è invece A+1. Stando agli esperti dell’agenzia di rating, i rischi di un possibile downgrade sono ora molto bassi e le probabilità inferiori a un terzo.