Nella nostra storia tributaria esistono dei contributi che facciamo difficoltà a digerire ma che affondano le radici nell’antichità, per esempio l’imposta di successione, di cui abbiamo avuto modo di parlare anche in passato in relazione alla situazione americana.
Nel nostro ordinamento, trascurando i prodromi della tassa dell’età augustea (la vigesima hereditatum di Augusto del 7 d.C.) e i tributi dell’età moderna (il quintello veneziano, datato 1565), possiamo dire che l’imposta sulla successione è nata in Francia intorno al 1704 come “derivazione” dell’imposta di registro.
In pratica esisteva un’imposta che il contribuente doveva corrispondere all’amministrazione tributaria dell’epoca per autenticare e datare i testamenti. Questa imposta, dall’essere un compenso per il servizio, si è trasformata in imposta sulle cosiddette quote ereditarie, distinte in base al grado di parentela.
Lo stato italiano, in uno stampato parlamentare postunitario del 1863 ha grosso modo sintetizzato questa procedura con la frase:
“avuto riguardo alle considerazioni morali che fanno giudicare maggiore il vantaggio che si acquista, se minore e meno legittima era l’aspettativa di lucro, e più lontana o inesistente affatto la relazione di famiglia e di parentela”.
Nell’Italia napoleonica, l’imposta di stampo francese, è stata assorbita da numerosi stati dell’epoca preunitaria. Soltanto il Regno delle due Sicilie prevedeva diritti fissi sui testamenti. E’ facile immaginare dunque la semplicità della traduzione di questa imposta nell’ordinamento dell’Italia unita.