La grossa rappresentanza di imprese italiane all’estero continua a dare ottimi risultati dal punto di vista economico, rendendo orgoglioso il Paese. I problemi, con la crescita esponenziale del gap tra domanda interna e domanda esterna, riguardano le imprese che rimangono nel nostro Paese.
Una miriade di società senza mercato che rischiano di chiudere battenti. Il Nomisma, dopo aver analizzato l’universo di quelle con almeno tre dipendenti, ha affermato che il 60% di esse (parliamo, numeri alla mano, di circa 605.000 imprese) opera esclusivamente a livello locale. Nella propria regione o in una regione limitrofa.
Ci sono poi 220.000 aziende (che rappresentano il 20,3%) che operano in tutto il Paese e hanno dunque un mercato di riferimento più esteso. Il restante 21 % (229.000 mprese circa) si muove anche fuori dai confini nazionali.
La rilevanza del mercato interno è forte. Lo si evince maggiormente se si pensa che le imprese italiane con controllo estero fanno registrare ricavi ottenuti all’80% nel nostro Paese. Anche le multinazionali sviluppano la maggioranza dei loro ricavi (circa il 61%) nel nostro Paese.
Per quanto concerne invece le imprese che esportano in almeno cinque Stati extra Unione europea, in Italia hanno la metà delle loro attività.
Il problema, dunque, sta nell’impatto che l’odierna recessione esercita sulla struttura dell’industria italiana. Industria che rimane attaccata alla domanda interna, traendone però sempre meno linfa vitale. Il crollo degli ordini, che in Italia si trasformano in fatturato, rappresenta una questione cruciale.
Il nodo si avvinghia intorno al collo delle imprese con più di 250 addetti, che in Italia ottengono il 62% dei loro ricavi. Tuttavia, con la violenta recessione si stringe anche intorno al corpicino delle piccole imprese (con 8-9 addetti) che dipendono per l’80% dal business interno.