Sono molti i mercati emergenti a temere il rafforzamento del dollaro. Tra questi, uno dei più spaventati è sicuramente la Russia.
La crisi finanziaria nel Paese è esplosa in maniera forte, con il rublo che ha ridotto alla metà il suo valore in confronto all’inizio del 2014 e la Borsa di Mosca che ha lasciato sul terreno un terzo della sua capitalizzazione, per via dei deflussi di capitali, pari probabilmente già intorno ai 130 miliardi di dollari.
Malgrado ciò, l’attenzione mediatica riscossa da Mosca sta occultando il pericolo che tutte le economie emergenti possano saltare in aria, in un caos non dissimile da quello che si verificò in Asia nel 1998, all’epoca del crollo delle “tigri asiatiche” e del default russo.
C’è una diversità di particolari, però, in confronto ad allora. Al momento, i mercati emergenti rappresentano, Cina inclusa, il 50% del pil mondiale. Se dovessero avere problemi, le economie avanzate sarebbero inevitabilmente contagiate.
Gli esperti spiegano:
La questione gira intorno all’atteso rialzo dei tassi USA, che per quanto la Federal Reserve ha fatto intendere l’altro ieri non essere imminente, tra aprile e giugno ci sarà. E certamente nel 2015. Il dollaro si è già rafforzato del 12% da maggio, mostrando i più alti guadagni degli ultimi 30 anni. Contrariamente all’analisi superficiale, per cui l’apprezzamento del dollaro contro le altre valute renderebbe le economie concorrenti degli USA più competitive e, quindi, ciò sarebbe un fatto inevitabilmente positivo per le economie emergenti, le cose stanno in maniera alquanto diversa.
Si è verificato che con la crisi finanziaria del 2008, la Fed abbia avviato una stagione di tassi zero e di liquidità a bassissimo costo, che ha spinto le altre banche centrali a seguirla (BoE, BoJ, PBoC e BCE, principalmente), facendo così defluire centinaia di miliardi di dollari verso quei paesi, che assicuravano rendimenti maggiori. Tra questi è possibile individuare la Cina, l’India, la Turchia, il Brasile, il Sudafrica, l’Indonesia, etc.