Forex: il primo trimestre del 2013

 Il mercato Forex del primo trimestre del 2013 vede protagonista il dollaro che in relazione alle altre valute, per esempio l’euro o lo yen, è in crescita. A fare questa previsione sono le maggiori banche mondiali, parliamo di Goldman Sachs, HSBC e BNP Paribas.

Una tabella molto interessante pubblicata dal blog economico Babypips riporta le previsioni sul comportamento del dollaro rispetto alle maggiori valute – euro, sterlina, franco e yen – e dimostra che il dollaro americano è in crescendo su tutte le altre monete.

Rispetto al versante europeo si nota che il dollaro è dato in crescita sull’euro, sulla sterlina e sul franco, rispettivamente del 2,6, dell’1,4 e del 2,1 per cento. Ma spaziando oltre si nota che il dollaro è in crescita anche contro l’Aussie o il Kiwi mentre potrebbero determinare una battuta d’arresto della valuta americana soltanto lo Yen e il Loonie.

I trader sono in attesa di comprendere i maggiori movimenti, ma vogliono anche scoprire, come tutti gli investitori, se le banche che hanno diramato queste previsioni, hanno qualche informazione che attualmente sfugge alla finanza. Per esempio non è ancora chiaro se le banche conoscano il futuro degli Stati Uniti e se prevedono una vortice d’acquisti nei confronti del dollaro come conseguenza della risoluzione del fiscal cliff.

America: scontro sul tetto al debito

 L’America ha in qualche modo archiviato il fiscal cliff, nel senso che l’accordo è stato raggiunto, le borse hanno reagito con entusiasmo all’evento ma gli analisti e il FMI ci hanno tenuto a sottolineare che è soltanto il primo passo, riportando il Presidente e il Congresso con i piedi per terra.

Obama, dopo aver seguito tutte le votazioni sul fiscal cliff e dopo aver incassato una mini vittoria sull’argomento, è tornato alle Hawai in vacanza, ma nel suo settimanale discorso diffuso in radio e sul web ha spiegato che nell’agenda economica degli Stati Uniti, adesso, c’è un problema da affrontare con alta priorità: il debito pubblico.

Ecco un virgolettato diffuso da moltissimi giornali, del discorso del Presidente Barack Obama:

“Abbiamo bisogno di fare ancora di più per ridare lavoro agli Americani e dobbiamo anche rimettere il Paese su un percorso che gli consenta di pagare il suo debito, la nostra economia non può più permettersi inutili contrapposizioni o affrontare una nuova crisi pilotata.”

I Repubblicani, in questo momento, stanno facendo pressione per ottenere un corposo taglio della spesa, ma soprattutto un innalzamento del tetto del debito. Su questo punto, però, il Presidente ha detto di non voler negoziare, ma ha in programma una politica fiscale ad hoc per superare l’impasse.

Rate più leggere con l’Euribor ai minimi

 Le rate dei mutui a tasso variabile dipendono molto dalle oscillazioni dell’indice al quale sono legate. Il fatto che l’Euribor a 1, 3 e 6 mesi sia ai livelli minimi, contribuisce ad allentare la pressione del mutuo sulle famiglie che si sono affidate al tasso variabile.

L’avvio del 2013 è stato condito da una serie di rincari e tasse. Tutto come previsto ma chiaramente nessuno ha accettato di buon grado la necessità di tirar fuori più soldi dell’anno passato. Eppure, in controtendenza rispetto a questa serie di rincari, sono in calo le rate dei mutui a tasso variabile.

Gli analisti prevedono che questa situazione, molto vantaggiosa per i mutuatari, non sia del tutto passeggera, al contrario prevedono che duri fino a tutto il 2013.

Tutto dipenderà dai valori che saranno assunti dall’Euribor a 1, 3 e 6 mesi che sono ormai fissi ai livelli minimi pari, rispettivamente, allo 0,11, allo 0,19 e allo 0,32 per cento. Rispetto ai mesi passati questo ribasso dell’indice è stato sicuramente gradito. I potenziali mutuatari, ma soprattutto chi un mutuo variabile l’ha acceso qualche anno fa, sono contenti dell’andamento dei tassi.

Peccato che la stessa tendenza al ribasso, almeno per il momento, non sia condivisa dagli spread applicati dalle banche. Praticamente, considerando un mutuo ventennale, il risparmio sulla rata è stato del 14 per cento in un anno. Niente male!

Il debito della sanità pubblica

La Sanità italiana ha un debito di dimensioni enormi nei confronti dei suoi fornitori. secondo i dati della Cgia di Mestre, dovrebbe aggirarsi intorno ai 40 miliardi di euro.

Un debito che deriva dall’acquisto di beni e servizi (apparecchiature mediche, siringhe, lavanderia, pasti etc) che è stato conteggiato grazie ai piani di rientro dal disavanzo sanitario organizzati dal ministero della Salute, ma ai quali mancano ancora dei numeri di alcune regioni che, anche se obbligate alla comunicazione, ancora non hanno passati gli ultimi aggiornamenti.

Secondo la Cgia, nel 2011 il debito della sanità pubblica nei confronti dei fornitori privati ammontava a 18 miliardi di lire, un numero che però non considera i debiti di alcune regioni. Per un calcolo più preciso, quindi, ci si è riferiti all’andamento del debito del 2010 e le stime risultanti parlano di pagamenti da effettuare per 37 miliardi di euro.

Ma il problema non è solo il mancato trasferimento di queste cifre, ma i tempi necessari perché questo avvenga. Infatti, nonostante il recepimento della direttiva europea che impone pagamenti al massimo a 60 giorni, le strutture sanitarie italiane hanno un tempo medio di pagamento di 300 giorni.

E la situazione non sembra volgere per il meglio, a causa dell’estensione del Patto di Stabilità che irrigidisce i criteri per i bilanci dei comuni, anche di quelli più piccoli, rendendo ancora più difficile per le amministrazioni locali rispettare i tempi di pagamento.

 

Saltata l’asta per le frequenze televisive, persi 1,2 miliardi di euro

 

 Il Ministro dell’Economia Corrado Passera avrebbe voluto risolvere la questione delle frequenze televisive con un’asta che si sarebbe dovuta effettuare prima della fine della legislatura del governo tecnico.
Un’asta che andava a sostituire il Beauty Contest voluto da Berlusconi ma che, a causa dei ricorsi fatti da alcune reti, non è potuta andare in porto, rovinando a Passera il sogno di regalare, come lascito per la fine della sua esperienza come ministro, 1,2 miliardi di euro.
L’asta è stata richiesta dalla Commissione europea, per risolvere il problema delle infrazioni alle regole sulla concorrenza e aprire il mercato tv italiano (che in questo momento è detenuto da Rai e Mediaset). Ma sono state proprio queste due emittenti, insieme a Telecom, a mettere i bastoni tra le ruote ai piani di Passera: le frequenze ricevute non sono adatte e creano delle continue interferenze con i paesi vicini (Croazia, Montenegro, Slovenia, Malta).Alcuni di questi paesi hanno presentato i loro esposti alle autorità competenti e le emittenti coinvolte si sono dette pronte a spegnere i loro ripetitori, a patto, però, che vengano assegnate loro altre frequenze pulite. Ma queste frequenze andrebbero a ledere il patrimonio di quelle che dovrebbero essere messe all’asta e quindi al ministero dell’economia non è rimasta altra soluzione se non quella di bloccare l’asta, perdendo, però, il miliardo abbondante di euro previsto.

 

 

Twitter prepara il terreno per l’ipo

 Sono in tanti a pensare che anche Twitter sta preparando il suo approdo in borsa. Soprattutto GreenCrest Capital, una società specializzata nello studio delle offerte pubbliche di acquisto, che, dati i cambiamenti che si stanno facendo sul social network, ha parlato di una possibile quotazione sul Nasdaq nel 2014.

Infatti, in questo ultimo periodo, Twitter sta subendo un riassetto del management e delle sue funzionalità, oltre che una maggiore concentrazione sull’advertising, tutte mosse che porterebbero a delle buone quotazioni. Secondo gli analisti, la capitalizzazione del sito di microblogging dovrebbe valere intorno agli 11 miliardi di dollari, molti di più di quanto Forbes ha stimato nel 2011 (circa 8 miliardi).

I social network quotati in borsa, ad oggi, sono due: Facebook e Linkedin, che hanno avuto dei destini opposti. Facebook, dopo la quotazione, ha perso circa un quarto del suo valore iniziale, mentre Linkedin ne ha guadagnato circa un quinto.

Quale sarà la sorte di Twitter? I dati che si hanno a disposizione fanno ben sperare, soprattutto il fatto che da qualche giorno si mormora di una possibile acquisizione del social da parte di Apple, che ha fatto subito alzare il valore dei titoli sul mercato secondario.

Altri guai per Obama: le compagnie assicurative aumentano i prezzi

 Non c’è pace per Barack Obama. Risolto, anche se solo temporaneamente, il problema del Fiscal Cliff, il presidente americano si trova alle prese con un altro problema non da poco, quello della sanità.

Sono molte le compagnie assicurative che, in attesa che nel 2014 entri definitivamente in vigore la riforma della sanità voluta dal presidente, stanno applicando dei prezzi particolarmente alti a chi deve comperare una polizza sanitaria, a discapito, ovviamente, delle fasce più deboli. E’ il New York Timesa gridare allo scandalo.La riforma Obama-care è stata varata nel 2010 (anche in quel caso si trattò di un compromesso strappato da Obama al Congresso all’ultimo minuto) ma entrerà definitivamente in vigore solo nel 2014 e nel frattempo le compagnie assicurative private ne approfittano per aumentare i loro margini di guadagno. Secondo il N.Y Times i rincari si aggirano tra il 20 e il 30%, un balzo pesantissimo per chi deve acquistare una singola polizza o per quelle aziende che devono farlo per un numero ridotto di dipendenti.Secondo il quotidiano la situazione non è destinata a migliorare neanche il prossimo anno, perché la riforma ha una grande lacuna: sono i singoli stati a poter decidere fino a che punto far arrivare i rialzi, non esistendo una legge federale comune. 

 

Export italiano in crescita ma molti “tarocchi”

 Se vogliamo investire in borsa anticipando qualche trend di successo possiamo puntare, almeno in Italia, sui titoli delle aziende che si dedicano all’export dei loro prodotti visto che nel 2012, le vendite all’estero, hanno raggiunto i 31 miliardi di euro.

Il problema è soltanto quello di individuare le aziende che non risentono molto della clonazione del prodotti visto che il Made in Italy, seppur molto quotato all’estero, è spesso sostituito da prodotti taroccati. Il giro dei “falsi” è di ben 60 miliardi di euro.

Il prodotto fatto e confezionato in Italia, quindi, da un lato sta conoscendo il boom delle esportazioni, comune a molti prodotti agroalimentari tricolore, grazie anche al fatto che i nostri prodotti risultano migliori di quelli classici. Per esempio formaggi e spumanti, tempo fa, erano appannaggio della Francia, adesso invece le quote di mercato in questi due settori sono cresciute.

In Francia le vendite di formaggi italiani, sono aumentate del 4 per cento, così come piace lo spumante esportato il 64% delle volte rispetto al passato. Ma i prodotti italiani spopolano un po’ ovunque, così che si scopre che la birra italiana è cresciuta in Germania dell’11 per cento, il made in Italy è aumentato del 10 per cento negli Stati Uniti e del 21 per cento sul versante asiatico.

MPS vola dopo il calo dei rendimenti BTp

 Monte dei Paschi di Siena, come tutti i titoli bancari, è un po’ in affanno nell’ultimo anno, soprattutto nella prima parte del 2012. In effetti, come in ogni momento critico che si rispetti, il sistema finanziario è messo sotto pressione. Dalla metà dell’anno scorso, però, è iniziata la risalita del titolo.

Nei scorsi giorni, in corrispondenza del calo dello spread e dell’apprezzamento dei titoli di stato italiani, è stato avviato il monitoraggio della Consob che interviene, di solito, nei momenti più eclatanti dell’andamento del mercato.

Il debito sovrano, in questo momento, ha subito quello che potremmo definire un allentamento della pressione nel senso che i titoli di stato americani e tedeschi, originariamente considerati beni di rifugio, sono adesso meno ricercati, così che i titoli di stato dei paesi periferici, possono godere di un calo del  rendimento.

In pratica, del fiscal cliff possono gioire i titoli del debito europei ed italiani in modo particolare. Il Monte dei Paschi di Siena, che fino a questo momento si è dimostrato il più esposto verso i titoli di Stato, ha ottenuto un miglioramento della situazione finanziaria.

Con lo spread ai minimi e con i rendimenti molto bassi dei titoli di Stato, le azioni del Monte dei Paschi di Siena hanno recuperato valore, guadagnando più del 12 per cento.

Le origini dell’imposta di successione

 Nella nostra storia tributaria esistono dei contributi che facciamo difficoltà a digerire ma che affondano le radici nell’antichità, per esempio l’imposta di successione, di cui abbiamo avuto modo di parlare anche in passato in relazione alla situazione americana.

Nel nostro ordinamento, trascurando i prodromi della tassa dell’età augustea (la vigesima hereditatum di Augusto del 7 d.C.) e i tributi dell’età moderna (il quintello veneziano, datato 1565), possiamo dire che l’imposta sulla successione è nata in Francia intorno al 1704 come “derivazione” dell’imposta di registro.

In pratica esisteva un’imposta che il contribuente doveva corrispondere all’amministrazione tributaria dell’epoca per autenticare e datare i testamenti. Questa imposta, dall’essere un compenso per il servizio, si è trasformata in imposta sulle cosiddette quote ereditarie, distinte in base al grado di parentela.

Lo stato italiano, in uno stampato parlamentare postunitario del 1863 ha grosso modo sintetizzato questa procedura con la frase:

“avuto riguardo alle considerazioni morali che fanno giudicare maggiore il vantaggio che si acquista, se minore e meno legittima era l’aspettativa di lucro, e più lontana o inesistente affatto la relazione di famiglia e di parentela”.

Nell’Italia napoleonica, l’imposta di stampo francese, è stata assorbita da numerosi stati dell’epoca preunitaria. Soltanto il Regno delle due Sicilie prevedeva diritti fissi sui testamenti. E’ facile immaginare dunque la semplicità della traduzione di questa imposta nell’ordinamento dell’Italia unita.