Tra crisi di Governo e stangata Iva: arriva l’allarme

 Il Governo aveva promesso che avrebbe scongiurato l’aumento automatico dell’Iva, ma se dovesse cadere l’esecutivo, la stangata sarebbe inevitabile. Manca poco e bisogna far presto, secondo gli addetti ai lavori, altrimenti arriverà una batosta sui consumatori che si rifletterà sull’economia del paese.

Se l’attuale maggioranza non dovesse trovare una soluzione alla crisi, o se si dovesse passare ad un Governo tecnico senza avere il tempo di apportare i correttivi, allora i cittadini pagheranno 23 miliardi in più per le merci.

L’aumento automatico dell’Iva

L’Iva è destinata ad aumentare automaticamente in base alle leggi di Bilancio che hanno introdotto le clausole di Salvaguardia. Queste scattano in modo automatico se non si rispettano i parametri europei. È quanto aveva promesso l’attuale Governo, rispettare questi parametri.

I conti pubblici italiani hanno bisogno di una sistemata, degli interventi che però potrebbero saltare anche in caso di Governo tecnico nominato dal Presidente della Repubblica. Salvini chiama al voto di sfiducia per il 20 agosto, ma gli interventi per “disinnescare” le misure automatiche e trovare le risorse necessaria per coprire i buchi richiedono tempo.

E le previsioni dicono che in caso di scatto automatico, l’incremento dell’Iva sarà di 23,07 miliardi di euro, che pagheranno cittadini ed imprese.

Si tratterebbe di un aumento che potrebbe mettere in ginocchio i consumatori. Anche perché questa volta l’aumento sarebbe consistente, con l’Iva che andrebbe al 22% per i beni di consumo, e al 25,2% per altri beni. Anche i beni che godono di un’aliquota avvantaggiata, quelli essenziali ed alimentari, andrebbero al 13%, con un aumento netto di un solo colpo del 3%.

Fino ad ora l’aumento automatico dell’Iva era stato evitato grazie ai vari interventi, ma mai era capitata una crisi nel bel mezzo di un momento così delicato, con la lettera di richiamo da parte dell’Unione Europea ancora fresca, e le relative promesse italiane accettate da Bruxelles.

Ma se da una parte si scongiurano aumenti per i cittadini, sulle merci, dall’altra lo Stato continua a dover coprire i buchi, come successe al tempo di Renzi che dovette mettere sul piatto quasi 30 miliardi in due anni. Con Gentiloni furono 15 i miliardi in più da aggiungere, e con Conte, l’anno scorso, si arrivò quasi a 13 miliardi di manovra.

Conoscenza e competenze finanziarie disponibili per tutti. Istruzioni per condividere un futuro sereno

Dal 1 al 31 ottobre torna per il secondo anno consecutivo il Mese dell’Educazione Finanziaria promosso dal Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria. Lo scopo di questo evento nazionale è quello di organizzare una rete di istituzioni e associazioni che possano con le loro iniziative dare vita a una serie di momenti divulgativi proiettati ad aiutare i cittadini a crescere e ad evolversi sul tema della finanza.

La guerra commerciale sconosciuta tra Giappone e Corea del Sud

Tra Giappone e Corea del Sud è guerra commerciale, ma in pochi se ne curano. Eppure i due paesi sono ai ferri corti, con blocchi alle importazioni reciproche e dazi che portano addirittura il prezzo di una birra a quasi 800 euro.

Se un coreano volesse assaggiare la classica birra media giapponese, dovrebbe staccare un assegno, perché i bar coreani boicottano qualsiasi cosa giapponese capiti a tiro. In Corea non vedrete Toyota, o Sony, perché i coreani sono sul piede di guerra. I consumatori non comprano più i prodotti del Sol Levante, secondo un recente sondaggio.

Il 55% della popolazione ha deciso che i prodotti giapponesi non devono essere più acquistati, a causa della guerra commerciale, nata su una disputa per dei risarcimenti della seconda guerra mondiale e sul blocco nipponico dei prodotti tecnologici coreani.

La guerra commerciale sconosciuta

È così iniziata una guerra commerciale che non ha trovato spazio sui giornali, nonostante sia feroce e aggressiva. Sembrano lontani i tempi quando i due paesi organizzavano i Mondiali di calcio del 2002 insieme, quelli del famoso arbitro Moreno.

Ma in realtà, le due nazioni non si sono mai amate, anzi. Il Giappone occupò la Corea durante la Seconda Guerra mondiale, con una repressione dura e feroce, che lasciò il segno nei sentimenti coreani.

Sentimenti che si sono trasformati in sentenze di risarcimento, l’anno scorso, da parte della giustizia ordinaria coreana contro due colossi giapponesi, la Mitsubishi Heavy Industries e la Nippon Steel. Da questa sentenza sono crollati 70 anni di rapporti commerciali allacciati con difficoltà.

Il Giappone deve risarcire i lavoratori coreani, costretti a dagli occupanti nelle fabbriche nipponiche durante la guerra.

E quando la giustizia coreana ha sequestrato dei beni appartenenti alle due aziende, il Giappone è passato ai fatti, vietando le esportazioni in Corea di display e semiconduttori, prodotti essenziali per l’industria coreana.

Per Tokyo, le riparazioni di guerra sono state saldate e la questione deve essere al limite discussa in un Paese terzo. Seul vuole ricorrere al tribunale commerciale del Wto perché si tratta di ritorsione e non di sicurezza nazionale, come vorrebbe il Giappone.

Ma sono gli stessi cittadini coreani ora a premere per boicottare i prodotti giapponesi. La Cina per il momento sta rifornendo la Corea, mentre il Giappone sta registrando un calo nelle esportazioni, a cui dovrà porre rimedio.

Lo Stato vende immobili pubblici per 1,2 miliardi per ridurre il debito

La necessità di ridurre il debito pubblico passa ancora una volta per la cessione di immobili pubblici, stavolta per 1,2 miliardi. Il decreto dovrebbe essere pubblicato a brevissimo sulla Gazzetta Ufficiale, e prevede che 950 milioni siano destinati al debito, mentre per il restante ci saranno altre destinazioni.

Si tratta di un programma di vendite già introdotto nella Legge di Bilancio come piano straordinario, per risollevare la disastrata finanza dello Stato, ma è stato rinviato dalla scadenza iniziale, a fine aprile.

La Ue ha sollecitato l’attuazione del programma in quanto parte degli accordi che l’Italia aveva preso con l’Europa già dalla fine del 2018.

Gli immobili pubblici in vendita

La mappatura degli immobili da cedere era già stata effettuata dal demanio, nonostante mancasse il decreto attuativo, e le cessioni concordate con la Ue erano pesanti. Si trattava infatti di 1600 immobili, di cui i primi 400 sono stati inseriti nel decreto. Per gli altri se ne riparlerà attraverso delle gare indette dalla Agenzia delle Entrate, perché si tratta di beni minori.

Non si tratta comunque solo di immobili, ma anche di terreni del Demanio, e per la procedura di cessione è questione di giorni. I bandi dovrebbero essere pubblicati entro la fine di questo mese, almeno per i primi 90 immobili.

L’asta sarà telematica per molti tipi di immobili, sia commerciali che residenziali, ma ci sono anche le ex caserme, palazzi storici, ex carceri e immobili di uso religioso.

Ad esempio ci sono le ville di Camogli e la “Villa Camerata”, con tutto il parco sotto a Fiesole, oppure un ex convento veneziano, che è un patrimonio dell’Uneesco.

I 90 immobile dovrebbero fruttare 38 milioni, secondo i calcoli del ministero, mentre da altri 1600 immobili arriveranno, forse, 458 milioni di euro.
Per chi fosse interessato, l’elenco degli immobili già catalogati e inclusi nella prima trance è sul sito dell’Agenzia del Demanio. Vi troverete anche dei beni del Ministero della Difesa.

Il tutto dovrebbe corrispondere all’1% del Pil per quest’anno e allo 0,3% per l’anno prossimo, secondo le stime del Mef.

Assegni dormienti: un tesoro che vale quasi 650 milioni di euro

Gli assegni dormienti dimenticati dagli italiani ammontano, secondo la Corte dei Conti, a 634 milioni di euro, e si parla solo degli ultimi 9 anni. Tutti soldi che fanno felice lo Stato, che può incassarli, quando non reclamati, secondo legge. Si tratta di assegni staccati per i motivi più diffusi, come un deposito in una compravendita, e poi dimenticati. Dopo tre anni, lo Stato li può incassare, e così fa.

È quanto emerge dalla relazione della Corte, che nella sua analisi ha evidenziato come lo Stato stia guadagnando molto dalla distrazione dei cittadini, che dimenticano di aver staccato un assegno e non se ne preoccupano solo perché moti non conoscono bene la legge.

Cosa dice la legge sugli assegni dormienti

La legge consente allo Stato di incassare tutti quei rapporti dormienti, che non riguardano solo gli assegni. Tempo fa era stato evidenziato come anche le polizze vita erano parte della legge, che dal 2007 dà questa possibilità allo Stato, così come quei conti corrente che restano inattivi per più di dieci anni.

E alla fine tutto diventa un vero fondo a cui i vari Governi possono attingere, tanto che le casse dello Stato si sono arricchite di più di due miliardi in dieci anni.

I cittadini che si dovessero accorgere di aver perso un piccolo tesoro, hanno comunque altri dieci anni per reclamare i loro averi, ma, secondo i dati, sono veramente pochi quelli che hanno chiesto la restituzione dei loro denari.

La legge era stata pensata per finanziare un fondo che servisse ai risarcimenti per chi era caduto nelle trappole delle frodi finanziarie. Fino al 2017 però, del fondo non vi era traccia, e solo i recenti scandali delle Banche Venete hanno attivato le Istituzioni per la creazione di una “cassa”.

Questo ha portato a molti dubbi su quale sia stata la destinazione dei rapporti dormienti riscossi dallo Stato fino a due anni fa. È la stessa Corte dei Conti ad evidenziarlo.

Gli assegni però, non sono il gruzzolo più congruo, di questi rapporti dormienti. La maggior parte viene, secondo la Corte, da assegni circolari che sono serviti da depositi, cauzioni, ma anche per “abbassare” il proprio conto corrente in caso di controlli. Sono assegni richiesti da chi ha qualcosa da nascondere al fisco, e teme un controllo dei propri conti come comparazione per il proprio reddito.

Attività e mission di AICOM, società di ingegneria privata

Esperienza ed innovazione le due parole chiave che definiscono AICOM, la società di ingegneria privata, fondata negli anni ’90 e particolarmente attiva nella progettazione di infrastrutture critiche, complessi industriali, ambiente, sicurezza (fisica, logica e governance) e tecnologie.

Oggi AICOM, forte della consolidata presenza sullo scenario italiano ed estero, opera con una propria ed articolata organizzazione interna e coordina progetti su larga scala con il supporto di specialisti nei più diversi campi di attività.

“AICOM è capace di operare nel settore dell’ingegneria con un approccio multidisciplinare ed innovativo”, afferma in una intervista il dott. Andrea Tanzi, Managing Director responsabile del Business Development della prestigiosa società.

Il business di questa Società è racchiuso in sei macroaree strategiche di competenza: Progettazione, Project and Construction Management, Real Estate, Ambiente, Security, Telecomunicazioni.

Aree di business strutturate in modo tale da risultare contemporaneamente autonome ed interdipendenti nell’ambito delle progettazioni integrate multidisciplinari.

Tra i punti forza di AICOM c’è anche il rapporto affidabile e di lunga data con i clienti, ad oggi oltre 30.

“La multidisciplinarietà dei servizi forniti da AICOM – evidenzia Andrea Tanzi – implica una grande varietà in termini di tipologia e numero di Clienti, tra i quali figurano i maggiori player nazionali operanti nei settori delle infrastrutture critiche, della difesa, dell’energia e dell’ambiente, dei trasporti, della sanità pubblica e privata, della gestione immobiliare e del facility management, delle telecomunicazioni”.

AICOM porta avanti la sua attività con un occhio anche al futuro.

“Da qualche anno l’azienda – conclude Tanzi – sta portando avanti con successo un piano di rafforzamento in mercati esteri, operazioni di M&A (Merger and Acquisition) con l’obiettivo di rafforzarsi in settori in forte espansione, oltre alla formazione continua dei suoi collaboratori per mantenere, anzi incrementare, qualifiche e certificazioni”.

Fincantieri-Naval Group: firmato accordo che rafforza la loro competitività

Firmato da Fincantieri e Naval Group l’accordo per la creazione di una società a quote paritetiche, con l’obiettivo di rafforzare la propria competitività di fronte all’ascesa dei paesi emergenti.

L’Alliance Cooperation Agreement, questo il nome dell’accordo, che segue l’approvazione dei rispettivi consigli di amministrazione, sostanzia i contenuti del progetto “Poseidon” e apre la strada al progetto di rafforzamento della cooperazione navale militare dei due gruppi per la creazione di un’industria navalmeccanica europea più efficiente e competitiva.

La firma della nascita della joint-venture ha visto protagonisti i rispettivi amministratori delegati delle due società: Giuseppe Bono e Hervé Guillou, a bordo della fregata “Federico Martinengo”, ormeggiata presso l’Arsenale della Marina Militare di La Spezia, unità del programma italo-francese Fremm.

La scelta della fregata Martinengo per suggellare il sodalizio sottolinea la solidità della ventennale collaborazione tra i due paesi, le loro industrie e le Marine nazionali.

La costituzione della joint-venture, attesa nei prossimi mesi e comunque entro la fine dell’anno, sarà soggetta alle consuete condizioni previste per questo tipo di operazioni nonché all’ottenimento delle autorizzazioni delle autorità competenti.

Attraverso la joint-venture, Fincantieri e Naval Group condivideranno best practice tra le due società condurranno congiuntamente attività mirate di ricerca e sviluppo; ottimizzeranno le politiche di acquisti; prepareranno congiuntamente offerte per programmi binazionali e per l’export.

L’accordo stabilisce che la società avrà sede a Genova, con una controllata in Francia, a Ollioules.

L’amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono ha affermato, “è il primo passo, ma ne seguiranno altri importanti nell’integrazione, ed è un’indicazione ai nostri governi e all’Europa che la strada da seguire è questa, per essere protagonisti nel mondo dobbiamo lavorare insieme”.

Sull’accordo che riguarda il settore difesa, il commento di Bono è stato: “ci dobbiamo attrezzare per aggredire il mercato asiatico: lì la concorrenza è più agguerrita, non ci sono Marine che hanno una capacità simile a quella europea o americana. Lì la concorrenza di coreani e cinesi è massima, abbiamo già un piano su come operare”.

La governance della joint venture, disciplinata anche da un patto parasociale, prevede un Cda di 6 componenti: 3 su nomina di ciascuna società. Per il primo mandato triennale, Fincantieri esprimerà il presidente ed il Chief Operational Officer, e Naval Group l’Ad e il Chief Financial Officer.

A conferma della valenza strategica che Fincantieri e Naval Group attribuiscono a questa operazione, nel consiglio d’amministrazione siederanno Giuseppe Bono, che assume la carica di presidente non esecutivo, ed Hervé Guillou.

L’amministratore delegato sarà l’ing. Claude Centofanti, di Naval Group. A ricoprire la carica di Chief Operating Officer (COO) sarà l’ing. Enrico Bonetti, attuale responsabile per le attività internazionali della divisione navi militari di Fincantieri.

Geneve Invest: le elezioni europee e l’impatto sull’Eurozona

Le elezioni parlamentari europee che si sono tenute nei 28 stati membri UE fra il 23 e il 26 maggio 2019 sono state probabilmente le più attese nella storia elettorale del continente. Il crescendo dei partiti euroscettici in tutta Europa, la Brexit ancora da definire e le sfide per la riforma di un progetto comunitario che ha bisogno di una ripartenza politica costituiscono temi molto caldi, le cui risoluzioni potrebbero avere delle ricadute dirette anche dal punto di vista economico per tutta l’Eurozona.
Dell’impatto che queste elezioni avranno sulla stabilità economica dell’Unione Europea abbiamo parlato con Omar Liverani, responsabile del mercato italiano a Genève Invest, società di gestione patrimoniale indipendente attiva nel settore finanziario degli investimenti a medio e lungo termine dal 2002.

“Il successo dei partiti populisti, anche se limitato, potrebbe portare i governi nazionali a rallentare iniziative che puntino a rafforzare l’Europa in materia economica e a promuovere un processo di riforme difficilmente rinviabile. È chiaro che rispetto alle precedenti elezioni Europee la posta in gioco è molto più alta, soprattutto perché si va verso un gruppo di lavoro più frammentato rispetto al passato, il quale potrebbe implicare un percorso più lento e difficile per alcune delle scelte fondamentali di questo 2019 – spiega ancora Liverani dalla sede Lussemburghese di Genève Invest – vale a dire la nomina del nuovo presidente della Commissione Europea e del nuovo Presidente della BCE. Detto questo, dal nostro punto di vista la sensazione è che i mercati non considerino il risultato di queste elezioni così importanti da provocare un impatto sugli spread dei titoli di stato della zona euro. Solamente un risultato fortemente anti-euro – conclude Liverani – avrebbe potuto avere un effetto davvero concreto sugli investitori e influenzare negativamente gli spread e la crescita dell’eurozona. Per questo motivo, riteniamo che la situazione resterà relativamente stabile.”

Non è soltanto Geneve Invest a ritenere che le elezioni europee dovrebbero avere un’influenza tutto sommato contenuta sui mercati. Anche Antonio Garcia Pascual, Chief European Economist di Barclays, ha parlato di “possibili turbolenze a breve termine”, escludendo però, a meno di scenari al momento difficili da prevedere, un impatto sostanziale sul lungo periodo. Della stessa opinione anche Carsten Brzeski, Chief Economist di ING Germany, che in un nota ufficiale rilasciata al Financial Times ha ridimensionato i timori relativi ad un successo dei partiti euroscettici.

“Il fulcro della questione sarà quello legato alle politiche fiscali – conclude Omar Liverani da Genève Invest – dato che l’avanzata dei partiti populisti potrebbe portare ad una crescita della spesa pubblica dei singoli stati, a tagli delle tasse per sostenere le classi più povere e, di conseguenza, a tensioni fra i paesi comunitari che non rispetteranno i limiti di deficit imposti da Bruxelles. Allo stesso tempo, queste misure avranno l’effetto di aumentare, nel breve termine, il prodotto interno lordo Europeo, e in tal caso ad avere un riscontro positivo immediato sui mercati”.

Bilancio in positivo per Atlantica Digital

Atlantica Digital chiude in positivo il primo anno di attività. I ricavi sono pari a 54,6 milioni di euro, un utile di 1,4 milioni (2,5%) e un utile netto di 1,2 milioni (2,3%).

Il fatturato è stato generato da clienti della Pubblica Amministrazione per il 37%, clienti Telco per il 16%, clienti Smart Metering per il 16%, clienti Finance per il 10%, clienti Media per il 10% e dal resto del mercato per l’11%.

Nel 2018 Atlantica Digital, che dal 1987 opera come Atlantica Sistemi SpA, è stata protagonista di due momenti importanti.

Da un lato, l’acquisto dal gruppo Ericsson Telecomunicazioni SpA del ramo di azienda denominato “Ericsson Industry & Society IT Business”, dall’altro l’operazione di fusione inversa per incorporazione del socio unico Atlantica Sistemi S.p.A. in Atlantica Digital S.r.l., trasformata poi in società per azioni, Atlantica Digital SPA.

Modificata anche l’organizzazione interna che ha visto la costituzione di due Direzioni Generali dirette da due manager, Carmine D’Acierno e Fabrizio Del Nero, provenienti da Società multinazionali, con esperienza pluridecennale nel settore IT (Information Technology).

Le due importanti unità, che fanno capo all’Amministratore Delegato, Pierre Levy, sono: la Direzione Generale Business che coordina tutte le attività commerciali e tecniche dell’azienda e la Direzione Generale Amministrazione e Controllo.

Atlantica Digital ha sedi a Roma, Milano e Rende (CS). Può contare su circa 400 specialisti IT, di questi 200 sono dipendenti diretti, e ha nel suo portafoglio oltre 100 Clienti primari pubblici e privati.

L’offerta di Atlantica si articola su quattro principali aree di business: Smart Metering, System&Data Management, Digital Transformation e CyberSecurity.