Il processo Saipem è nato per indagare su un pagamento di 197 milioni di euro di commissioni in un periodo di poco più di ventiquattro mesi, dal novembre 2007 al febbraio 2010, da parte della società a una società che si chiama Pearl Partners.
In ballo, dunque, c’è una maxi presunta maxi-tangente pagata in Algeria da Saipem, con il via libera diretto dell’ex numero uno dell’Eni, Paolo Scaroni.
Tuttavia De Pasquale – che insieme ai pm milanesi Giordano Baggio e Isidoro Palma – ha chiesto il rinvio a giudizio di Scaroni e di una nutrita schiera di ex manager Saipem per corruzione internazionale, nella sua requisitoria conclusa venerdì scorso, usa parole pesanti per fare capire meglio al gup Alessandra Clemente “l’enormità della questione”. Ricorda che le tangenti – mascherate come “commissioni” – servivano a portare a casa “contratti da parte di Saipem per un totale complessivo di 8 miliardi di euro”. Per l’accusa, la percentuale versata rappresenta un unicum. “Non ho conoscenza – è il ragionamento dell’accusa – di casi in cui siano state pagate commissioni di questa entità in Italia o all’estero da parte di una sola società”.
De Pasquale si spinge più in là nell’invocare il rinvio a giudizio degli imputati, sostenendo che i soldi girati intorno agli appalti in Algeria, ammontano in realtà a “400 milioni di euro di mediazioni”, e che appena arriveranno le rogatorie dal Libano, la procura depositerà le nuove contestazioni. Il magistrato fa un parallelo tra quello che – secondo la sua ricostruzione – succede oggi in Saipem-Eni, e quello che succedeva prima di Tangentopoli, “quando venne accertata un’intensa attività di pagamenti all’estero di commissioni. Questi soldi – è scritto nella trascrizione dell’udienza – “spesso finivano ai partiti politici italiani oltre che all’estero”.