Sono giorni difficili questi per i manager italiani, e presto ne arriveranno di ancor più complicati. La presentazione del piano di spending review del commissario Paoletti ha evidenziato la necessità di redistribuire e razionalizzare le spese dello Stato e delle società partecipate, pienamente in line con quanto voluto da Matteo Renzi che vuole limitare gli emolumenti dei dirigenti alla stessa cifra guadagnata dal capo dello Stato, ovvero 239.181 euro lordi l’anno.
Ci sarà tanto lavoro da fare perché si arrivi a questo risultato, dato che fin da ora i manager hanno iniziato a polemizzare su questo punto cercando di difendere come possibile i loro guadagni, ma marzo sarà l’ultimo mese di stipendi d’oro per loro: dal 1° aprile scatteranno i primi tagli agli stipendi dei manager pubblici per effetto dell’entrata in vigore di due leggi, una voluta dall’ex ministro Fabrizio Saccomanni e l’altra emanata durante il governo Letta.
La prima di queste due norme, ovvero l Regolamento sui compensi per gli amministratori delle società controllate dal ministero dell’Economia non quotate e che non emettono strumenti finanziari quotati sui mercati regolamentati, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 17 marzo 2014, prevede che i manager di questo tipo di società (tra le quali figurano Invitalia, Anas, Consap, Expo 2015,Enav, Poligrafico, Italia Lavoro e Sogesid) abbiano una retribuzione suddivisa su tre fasce di complessità con un tetto massimo di 311mila euro all’anno (la retribuzione annua del primo presidente della Corte di Cassazione) per la prima fascia.
I manager della seconda fascia guadagneranno l’80% di quelli della prima (248.800 lordi) e quelli della terza il 60% (186.600 euro lordi).
La seconda norma a riguarda è contenuta nel Decreto Salva Italia di Monti e prevede che per le società quotate e per quelle non presenti in Borsa ma che emettono strumenti finanziari quotati sia l’assemblea degli azionisti a decidere se applicare un taglio del 25% agli stipendi dei manager pubblici.