Possibili oscillazioni del dollaro alla fine del QE

 Le reazioni del dollaro alla stanchezza della FED che ha vincolato il quantitative easing all’andamento dell’indice di disoccupazione e dell’indice inflazionistico, ormai le sappiano. Ci siamo posti la domanda della necessità di dire basta agli aiuti della Federal Reserve, adesso però è il momento di affrontare altri due quesiti: perché frenare il quantitative easing e con quali effetti sul dollaro.

Tutto nasce dalla spaccatura interna alla FED in considerazione del panorama economico attuale. I membri della Federal Reserve che hanno votato di recente contro l’estensione degli aiuti al dollaro, l’hanno fatto per un motivo molto semplice: non ritengono che con questo strumento si dia davvero una mano all’economia americana. Questo non vuol dire che pensano che il sistema economico americano sia in forma, ma bisogna trovare nuove risorse strumentali.

Iniettare liquidità nell’economia USA, tra l’altro, potrebbe non essere efficace e sul lungo periodo determinare una crisi finanziaria più profonda di quella vissuta pochi mesi fa. Alla domanda sul perché dell’interruzione del QE, allora, si può rispondere che è necessario al fine di trovare nuove soluzioni e strumenti più efficaci.

Il dollaro, dopo lo stop del sistema FED, potrebbe recuperare terreno dopo aver perso appeal configurandosi come valuta rifugio. Nel 2013 ci potrebbe essere la fine del rally del dollaro.

Forex: il primo trimestre del 2013

Reazioni del dollaro alla stanchezza della FED

 La FED potrebbe decidere da un momento all’altro che gli aiuti al dollaro non sono infiniti e quindi porre un limite agli interventi in materia di politica monetaria. Se lo aspettano un po’ tutti dopo la diffusione delle minute FOMC.

La scorsa settimana sono stati diffusi dei documenti in relazione alla politica monetaria da adottare da parte della Federal Reserve e si è scoperto che in seno alla “banca centrale” americana c’è una frattura: da un lato coloro che vorrebbero segnali ancora più netti di sostegno alla moneta americana, dall’altro coloro che invece sperano in un comportamento totalmente diverso della FED.

A questo punto occorre capire come si evolve il mercato valutario e che legame c’è tra ripresa e quantitative easing. La FED, sembrava quasi normale che portasse avanti il QE di lungo o infinito periodo. Una politica che senz’altro fa comodo alle aziende ma che danneggia l’economia dopo un po’. Per cui è stato proposto di mettere un punto al processo già da fine anno.

La FED ha reagito introducendo un legame tra i tassi d’interesse e il dato sull’occupazione e l’inflazione, in modo da non procedere su questa direttrice fino alla fine del 2015 indiscriminatamente. Se il tasso di disoccupazione scendesse al di sotto del 6,5% e se l’inflazione restasse al di sotto del 2,5%, la FED potrebbe stoppare gli aiuti al dollaro.

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I segni ambigui del mercato del lavoro USA

 Il mercato del lavoro americano non è poi così facile da interpretare. Sicuramente i report diffusi settimanalmente sono utili per rispondere alla domanda: come si muovono i dollari, ma potrebbe essere ancora più interessante scoprire il legame tra andamento del mercato professionale e ripresa economica USA.

Il problema è che dai report si evincono segnali non sempre indicativi di un unico trend. Per esempio a dicembre, se si decontestualizza l’analisi dei dati Non-Farm Payrolls, si scopre che i nuovi posti di lavoro “non agricoli” creati, sono stati più di quanti ci si aspettasse con uno scarto consistente di ben 5 mila unità.

Il mercato del lavoro, però, suggerisce un trend generale differente. Il punto di partenza sono i dati sulla creazione di posti di lavoro forniti dall’Automatic Data Processing: gli analisti si aspettavano la creazione di 134 mila nuovi posti di lavoro mentre ne sono stati creati ben 15 mila. Molti investitori si aspettavano allora un crescendo parallelo dei dati sui NFP.

Invece, per quanto riguarda i lavori non agricoli, c’è stato un dato molto vicino a quello indicato dagli analisti. Poi, nel 2012, in generale, c’è stato un calo di 13 mila posti di lavoro nel settore pubblico, come effetto dei tagli alle spese.

Rimborso record dalle banche americane per i mutui immobiliari

 18,5 miliardi. Questo è l’ammontare del rimborso record che alcune delle più grandi banche americane dovranno versare come indennizzo a coloro che, a causa di insolvenze nei pagamenti dei mutui immobiliari, hanno avuto la casa pignorata.

La faccenda è piuttosto complicata. Tutto inizia, in realtà tutto si conclude, con la grande bolla speculativa del settore immobiliare scoppiata in America tra il 2007 e il 2008. In quel periodo tantissimi cittadini che avevano chiesto un mutuo per l’acquisto della casa si trovarono nell’impossibilità di onorarlo e le banche, ovviamente, iniziarono immediatamente le procedure per riavere indietro i loro soldi.

Dal momenti che le banche avevano una certa fretta di recuperare il denaro, molte delle procedure furono falsate (un esempio è l’utilizzo incondizionato delle firme robotizzate: i funzionari, molto spesso, neanche si curavano di leggere le pratiche).

Ora si è arrivati ad un accordo tra le banche che hanno usato questi metodi (tra le quali figurano JP Morgan Chase, Citibank e la Bank of America) e le autorità federali di vigilanza, che ha portato ad un maxi rimborso di 18,5 miliardi di dollari. 3,3 miliardi finiranno direttamente nelle tasche delle famiglie con la casa pignorata e 5,2 miliardi saranno destinati a coloro che hanno difficoltà con le rate dei mutui.

 

 

Europa e USA diversi anche nell’immobiliare

 Gli ultimi dati sul mercato immobiliare su scala globale, sono molto discordanti visto che da un lato di parla della ripresa del settore immobiliare americano e dall’altro s’insiste sul fatto che, letto il report sulla crisi del mercato immobiliare, il 2013 sarà l’anno dell’affitto.

Sempre più lontani quindi, su questo fronte, l’Europa e gli Stati Uniti. Nel Vecchio Continente, dicono gli analisti, ci sarà un’altra contrazione del prezzo delle case, cosa che non accadrà in America dove i valori degli immobili tenderanno verso l’alto.

Non si tratta certo di prospettive visionarie, visto che la disamina parte dai dati sulle compravendite, raccolti proprio negli ultimi mesi del 2012.

In Europa, per esempio, nel Regno Unito, i prezzi delle case sono scesi già dello 0,3% ma si prevede un ulteriore calo dell’1 per cento nei prossimi mesi con un’incidenza importante anche sull’andamento della sterlina. Soltanto Londra è in controtendenza rispetto a questa linea.

La situazione appena descritta si riproduce anche in Spagna dove sono in calo i mutui e anche i prezzi delle case sono scesi in ogni regione e nei capoluoghi di provincia in particolare. Un crollo dei costi che si è assestato sulla media del 6,9% ma ha toccato anche apici del -10%.

Negli Stati Uniti, al contrario, già in ottobre si era assistito ad un consistente aumento dei prezzi delle case pari al 4,3% e il trend avviato nel 2012 dovrebbe proseguire anche nei prossimi mesi con grande soddisfazione dell’economia americana in generale.

America: scontro sul tetto al debito

 L’America ha in qualche modo archiviato il fiscal cliff, nel senso che l’accordo è stato raggiunto, le borse hanno reagito con entusiasmo all’evento ma gli analisti e il FMI ci hanno tenuto a sottolineare che è soltanto il primo passo, riportando il Presidente e il Congresso con i piedi per terra.

Obama, dopo aver seguito tutte le votazioni sul fiscal cliff e dopo aver incassato una mini vittoria sull’argomento, è tornato alle Hawai in vacanza, ma nel suo settimanale discorso diffuso in radio e sul web ha spiegato che nell’agenda economica degli Stati Uniti, adesso, c’è un problema da affrontare con alta priorità: il debito pubblico.

Ecco un virgolettato diffuso da moltissimi giornali, del discorso del Presidente Barack Obama:

“Abbiamo bisogno di fare ancora di più per ridare lavoro agli Americani e dobbiamo anche rimettere il Paese su un percorso che gli consenta di pagare il suo debito, la nostra economia non può più permettersi inutili contrapposizioni o affrontare una nuova crisi pilotata.”

I Repubblicani, in questo momento, stanno facendo pressione per ottenere un corposo taglio della spesa, ma soprattutto un innalzamento del tetto del debito. Su questo punto, però, il Presidente ha detto di non voler negoziare, ma ha in programma una politica fiscale ad hoc per superare l’impasse.

Altri guai per Obama: le compagnie assicurative aumentano i prezzi

 Non c’è pace per Barack Obama. Risolto, anche se solo temporaneamente, il problema del Fiscal Cliff, il presidente americano si trova alle prese con un altro problema non da poco, quello della sanità.

Sono molte le compagnie assicurative che, in attesa che nel 2014 entri definitivamente in vigore la riforma della sanità voluta dal presidente, stanno applicando dei prezzi particolarmente alti a chi deve comperare una polizza sanitaria, a discapito, ovviamente, delle fasce più deboli. E’ il New York Timesa gridare allo scandalo.La riforma Obama-care è stata varata nel 2010 (anche in quel caso si trattò di un compromesso strappato da Obama al Congresso all’ultimo minuto) ma entrerà definitivamente in vigore solo nel 2014 e nel frattempo le compagnie assicurative private ne approfittano per aumentare i loro margini di guadagno. Secondo il N.Y Times i rincari si aggirano tra il 20 e il 30%, un balzo pesantissimo per chi deve acquistare una singola polizza o per quelle aziende che devono farlo per un numero ridotto di dipendenti.Secondo il quotidiano la situazione non è destinata a migliorare neanche il prossimo anno, perché la riforma ha una grande lacuna: sono i singoli stati a poter decidere fino a che punto far arrivare i rialzi, non esistendo una legge federale comune. 

 

Sincerità e parallelismi nel fiscal cliff

 La questione del fiscal cliff è stata affrontata per diverso tempo e secondo numerose sfaccettature anche perché dalla risoluzione di questa impasse, in qualche modo, dipende il futuro dell’America.

Ora l’America è sicuramente una delle economie più importanti del mondo che ha un legame molto stretto anche con l’Europa. Abbiamo già visto che siano molti gli economisti che dichiarano un parallelismo tra la crisi americana e quella europea, ma abbiamo anche considerato che, per trovare una soluzione, qualora ci sia, la domanda principale a cui rispondere è: perché non basta l’accordo sul bilancio. 

Adesso è arrivato il momento di affrontare il fattore sincerità che si lega al discorso politico. Torniamo un po’ alle previsioni di Roubini che ha ribadito la centralità della politica nell’economia del futuro, un po’ come la politica era stata fondamentale nei paesi in via di sviluppo, così lo sarà in America.

La classe politica sarà capace di essere sincera con il proprio elettorato? In Europa, la Merkel ed Hollande hanno evitato di affrontare le questioni più spinose con l’elettorato e una linea simile è stata adottata anche da repubblicani e democratici.

Il problema in questo caso specifico si lega al fatto che si devono toccare dei punti molto delicati del sistema sociale, quale ad esempio il comparto pensioni, o il settore sanitario.

Fiscal cliff: perché non basta?

 L’accordo sul bilancio dell’America è stato finalmente raggiunto ma l’economia americana, pur essendosi allontanata dal precipizio, adesso, non trova sufficiente le misure previste in questo documento tampone. A bocciare il contenuto di questo accordo è il FMI stesso.

Per l’America, dicono gli analisti, si sta prefigurando un periodo di crisi molto simile a quello che ha attraversato l’Europa che invece adesso sembra arrivata alla fine del percorso di espiazione dei demeriti finanziariL’Economist fa un parallelo tra l’America e l’Europa ma la domanda giusta è: perché questo accordo non è sufficiente? Soltanto risolvendo questo quesito si possono trovare la basi per la ripartenza americana.

L’accordo non basta perché è temporaneo e questo comporta che siano stati posticipati tutti i problemi seri. Nel breve termine, consideriamo anche due mesi, il compromesso che i Repubblicani e i Democratici hanno preso davanti al Congresso, potrebbe venire meno.

Tutti si sono concentrati molto sugli scambi: cosa concedere alla controparte per ottenere qualcosa che si era messo nel proprio programma, mentre è stato perso di vista l’obiettivo comune che è mettere sotto la campana di vetro della sicurezza, il sistema fiscale americano.

Nonostante la versione un po’ romanzata dell’accaduto, le perplessità restano e possono incidere sul sentiment degli investitori e quindi sui mercati.

Nouriel Roubini, un altro guru ha parlato

 Byron Wien non è l’unico guru della finanza che in questo inizio d’anno è stato consultato da giornali ed esperti per capire un po’ meglio i trend dell’anno prossimo. Molto ascoltata anche la versione del 2013 che ha dato Nouriel Roubini.

Quest’ultimo, a colloquio con una giornalista del New York Times, ha centrato molto l’attenzione sul ruolo della politica, trascurando alcuni dettagli, che invece sono alla base dell’indagine di Wien, come ad esempio il programma nucleare dell’Iran, o la leadership cinese.

Nouriel Roubini invece, come abbiamo accennato, riporta l’attenzione dal mercato protagonista del 2012, all’azione politica che ha modellato e continuerà a modellare il sistema economico e finanziario anche nel 2013.

Secondo Roubini, fino a questo momento, la politica era stata cruciale negli affari dei paesi in via di sviluppo, ma adesso torna ad essere al centro dei discorsi finanziari perché può vanificare gli sforzi fatti per la ripresa, ma può anche combattere i movimenti contrari al progresso finanziario.

La politica, materialmente, può influire anche sul tessuto imprenditoriale, magari detassando l’attività delle imprese o approvando politiche monetarie e fiscali più accomodanti.

Roubini spiega infine che la politica ha la possibilità di ridurre ai minimi termini le diseguaglianze di reddito anche se non si sa come si procederà in questo senso nell’anno 2013.