Gli americani non gradiscono un dollaro troppo forte in confronto all’euro. Un sondaggio condotto dalla società americana Butters su 23 conference call effettuate da manager di società Usa quotate, evidenzia che il 70% di loro dà la colpa degli utili deludenti alla rivalutazione del dollaro rispetto alle altre valute mondiali.
Ed è auspicabile che ciò abbia delle ripercussioni sulla politica monetaria poiché si sa quanto la Fed e il governo si siano impegnati per ottenere una ripresa vigorosa dopo gli anni bui del 2008 e 2009. Ed è altresì palese che il dollaro debole e l’euro forte degli ultimi cinque anni abbia fatto bene all’America e male all’Europa. Il principale effetto del quantitative easing è proprio questo: indebolire la valuta di riferimento. Da quando Mario Draghi ha fatto balenare la possibilità di acquisti massicci della Bce sui titoli di stato l’euro ha cominciato a indebolirsi e in meno di un anno il cambio con il dollaro è passato da 1,38 a 1,06. Dunque dopo cinque anni di sofferenza ora tocca alle aziende europee respirare un po’ e incrementare le proprie esportazioni verso tutti quei paesi che hanno il dollaro come valuta di riferimento. E’ giusto che vada in questa maniera, l’economia americana è tornata a crescere a tassi superiori al 2% mentre l’Europa è ancora troppo ferma.
Perché i manager a stelle e strisce protestano allora? Perchè loro sono grandi e forti e quando il vento non gira dalla loro parte cercano di alzare la voce. Un dollaro a pari con l’euro è troppo basso per le aziende americane, vogliono che resti tra 1,05 e 1,1 al massimo. Se scendesse sotto la parità sarebbe un disastro, per loro. E poichè Draghi ha annunciato 60 miliardi di euro di acquisti al mese fino a settembre 2016 il rischio di un indebolimento sotto la parità esiste.