Non ci sarà più spazio per il passato in questa nuova epoca successiva alla privatizzazione del settore elettrico. Il passato era forte dell’equazione “Enel uguale centrali e fornitura di energia”. Oggi?
Oggi cambia tutto. Anche il fatto che Enel sia ancora un’azienda del nostro Paese. Con la presentazione londinese del nuovo piano industriale viene definitivamente certificato il cambiamento della società: sempre meno produzione da fonti tradizionali, ma sviluppo accelerato nelle rinnovabili; stop alla costruzione di nuove centrali, se non nei paesi emergenti a forte domanda di energia; investimenti crescenti nel nuovo core business dell’azienda, rappresentato dalla gestione delle reti che diventeranno sempre più digitali.
In altre parole, Enel si adatta allo tsunami che ha colpito il mondo delle utility negli ultimi anni, con la crisi della produzione da nucleare (in Europa e Giappone, soprattutto), il successo delle energie verdi, l’aumento dell’efficienza e il calo della domanda dovuto alla recessione. Ma soprattutto prova a sfruttare l’occasione offerta dalla grande domanda di energia nelle economie emergenti: in sostanza, diventare un gruppo “globalizzato”, secondo un modello mai seguito da nessuna grande utilità con la sola eccezione di Gf Suez.
Ecco perché Enel va considerata sempre meno italiana. La testa rimarrà nel nostro paese, ma il peso delle controllate estere crescerà sempre di più. A cominciare da Enersis, la succursale sudamericana destinata a diventare il maggior produttore di reddittività del gruppo, assieme allo sviluppo delle rinnovabili dove oltre al sudamericana lo sviluppo è previsto anche in Africa. Per convincere il mercato della bontà del piano industriale, l’amministratore delegato Francesco Starace ha garantito agli investitori un progressivo aumento della cedola, sostenuto proprio da un aumento della reddittività.