Un miliardo di euro di tasse eluse tra il 2009 e il 2014, una perdita per ogni Paese che va dal 35% in meno incassato in Belgio al 64% della Francia.
Per il solo 2014 il mancato incasso fiscale dai profitti di Ikea si traduce in una perdita pari a 36,6 milioni di euro per la Germania, 23,8 per la Francia, 10,1 per la Svezia. A fare il punto della situazione è uno studio commissionato dal gruppo dei Verdi del Parlamento Ue al ricercatore Marc Auerbach, che ricostruisce minuziosamente in 28 pagine il complesso schema societario di scatole cinesi che viaggia tra l’Olanda, il Lussemburgo e il Liechtenstein e che utilizzando le pieghe della legislazione, molto favorevole, di questi tre Paesi, riesce a ridurre legalmente quanto sarebbe dovuto al fisco se si seguissero invece le vie “ordinarie”.
Alla base del sistema il pagamento da parte delle varie filiali sparse nei vari Paesi di royalties del 3% delle vendite alla sede olandese, l’Inter Ikea Group, controllata da una fondazione, la Stichting Ingka. E’ proprio grazie al pagamento di questi diritti che i negozi possono ridurre la loro base imponibile, mentre i proventi delle royalties non sono tassati in Olanda e sono traghettati in Lussemburgo sotto forma d’interessi su un debito da rimborsare a un’altra società del gruppo, che a propria volta paga al fisco solo lo 0,06% delle cifre ricevute.
L’ultimo passaggio è in Liechtenstein, e qui le tasse sui dividendi che arrivano a un’altra fondazione legata al gruppo non sono tassati (lo prevede la legge nazionale). E’ quella che Auerbach definisce “tax migration”. Attualmente, ricorda il ricercatore, Ikea, che ha aperto il suo primo negozio nel 1958, ha ricavi per 33,8 miliardi l’anno grazie alle vendite nelle 375 sedi aperte in oltre 40 Paesi, dove lavorano più di 172.000 dipendenti.