Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha le idee chiare. L’inquilino di uno dei dicasteri più importanti per gli equilibri del nuovo esecutivo sa bene che per far ripartire l’economia italiana è necessario intervenire all’atto pratico. Come? Promuovendo gli investimenti delle imprese, riducendo il cuneo fiscale, migliorando l’efficienza del mercato del lavoro, ridefinendo il sistema degli ammortizzatori sociali e da ultimo sviluppando le politiche attive per il lavoro”.
In altri termini, Poletti sa bene che occorre far partire quanto contemplato nel ‘Jobs Act’, asso nella manica del Governo Renzi.
Sul piano normativo verrà introdotto un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti: per i primi tre anni viene sterilizzato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con l’obbligo al reintegro, sostituito con un’indennità risarcitoria proporzionata al periodo lavorato, accompagnata dal sostegno alla ricollocazione tramite le politiche attive. Si sta ragionando anche di introdurre una retribuzione minima garantita per tutelare i redditi dei lavoratori esclusi dalla contrattazione. Quanto alla flessibilità in entrata, a seconda di come sarà declinato il contratto di inserimento, si ipotizza un intervento sul contratto a termine per estendere la cosiddetta acausalità fino a 36 mesi.
Si potrebbe lasciare la normativa invariata se verrà generalizzata l’applicazione del contratto di inserimento a tutele crescenti, invece di applicarlo al solo primo contratto o ai soli giovani under 35 anni.
Il Jobs Act tuttavia è ancora in fase embrionale e una volta completato si porrà anche il problema di se e come riaccordarlo con proposte presentate dalle altre gambe della possibile maggioranza, come quella che reca la firma dell’ex Ministro Maurizio Sacconi (del Nuovo centro destra) e del giuslavorista di Scelta Civica Pietro Ichino.