È stato il punto fondamentale dei socialdemocratici in campagna elettorale, un nodo importante per il contratto di coalizione del Merkel-ter ed è stato approvato dal governo nelle settimane scorse. Ma in Germania il salario minimo non ha trovato riscontri positivi. È scontenta la parte industriale, che teme il rischio di far andare migliaia di posti di lavoro in fumo.
Ma non è contento anche una parte del partito della Merkel che vorrebbe modificarlo in Parlamento, contenendo la platea di lavoratori che avrebbe diritto al “Mindestlohn”: 8,50 euro l’ora da gennaio 2015. La cancelliera ha difeso strenuamente – almeno pubblicamente – la riforma formulata dal ministro del Lavoro Andrea Nahles. Ma in questi giorni ha suscitato polemiche un rapporto che giunge proprio dalla cancelleria e che lancia pesanti accuse agli autori della legge.
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È il “Normenkontrollamt”, una commissione di dieci esperti indipendenti creata nel 2006 presso il Kanzleramt – c’è anche l’ex presidente dell’istituto di statistica Hahlen – a sostenere che nella proposta sul salario minimo fatta dal ministero «il calcolo dei costi è lacunoso» e per di più «mancano le alternative». Quindi, mentre prestigiosi istituti hanno calcolato le incombenze per l’industria, il Diw ad esempio sostiene che potrebbe ammontare a 16 miliardi di euro per i datori di lavoro, il governo avrebbe parlato solo di «costi burocratici», quasi nulli. Poco credibile, secondo la commissione.
Tito Boeri, in Italia tra i principali sostenitori di un salario minimo orario, concorda sul fatto che il salario minimo «andrebbe limitato di più, modulandolo attraverso criteri non manipolabili come l’età».