La Norvegia sembra essere diventata improvvisamente la patria del ‘dolce far niente’. Un’impressione che si ha guardando i dati recenti messi a disposizione dall’Ocse. La media delle ore lavorate all’anno nel terra dei fiordi è 1.414. Negli altri Stati, invece, la media è di 1.749 ore.
Al fine di conservare i livelli di occupazione e di produzione inalterati, infatti, Oslo ha provato ad accorciare l’orario dei lavoratori. C’è chi ritiene che, anche in virtù delle riserve di petrolio e agli enormi ricavi che ne conseguno, la Norvegia sia diventata la quint’essenza del cosiddetto Poet’s day, un acronimo che nel mondo anglosassone è tradotto con “stacca presto, domani è sabato” (Piss off early, tomorrow’s Saturday).
Malgrado ciò, gli Stati scandinavi sono da decenni la garanzia di un welfare state con tasse alte, servizi ottimi e una cultura del lavoro ben radicata.
Tra questi abbiamo la Danimarca, che negli ultimi anni è sinonimo di un modello basato sulla flexsecurity, una sorta di connubio tra flessibilità e sicurezza, con lo scopo di aumentare la produttività generale.
Al momento, però, la legislazione norvegese disegna un quadro preciso rispetto a orari e festività: 40 ore settimanali e un massimo di nove ore lavorative al giorno; per i contratti collettivi raggiunti di comune accordo con i sindacati si raggiungono le 37,5 ore complessive. Ma quello che più conta sono i dati che riguardano i viaggi sui treni pendolari: secondo il giornale The Foreigner, si registra un 30% in meno di passeggeri sui treni di venerdì mattina.
Lo stesso vale per i viaggi in auto: sono 14 mila le vetture in meno dirette nel centro di Oslo l’ultimo giorno della settimana lavorativa.
I lavoratori non sembrano però così convinti delle statistiche: molti ormai si dedicano al telelavoro. Un aspetto questo che renderebbe meno affidabili i numeri forniti dall’Ocse.