Primo giro di boa per il Jobs Act. Sono passati sei mesi dall’avvio della riforma e in particolare dall’installazione di quello che è il nuovo contratto a tutele crescenti, punto principale della manovra del governo Renzi.
Le cose non procedono benissimo: il tasso di disoccupazione dei giovani ha fatto registrare il massimo storico, attestandosi al 44,2%. Il tasso di occupazione dei giovani ha fatto invece registrare il minimo storico, attestandosi al 14,5%. Così anche in generale: giù l’occupazione al 55,8%, su la disoccupazione che ora viaggia al 12,7%, dopo aver sfiorato il 13% record a novembre. Nel mese di giugno – ultimi dati Istat a disposizione, domani arrivano quelli di luglio e del secondo trimestre – si sono persi 40 mila posti sull’anno prima e aggiunti 85 mila disoccupati. Questa la fotografia.
Demerito del Jobs Act? Difficile sostenerlo, con un Pil che si affaccia solo da qualche mese al segno più, stagnando allo zero virgola (+0,2% nel secondo trimestre, +0,7% atteso per l’anno). Consumi, investimenti, produttività: nulla tira. Non come dovrebbe per rianimare il lavoro. Nessun demerito, dunque. Ma neanche rimedio, a leggere i dati, a sei mesi dall’entrata in vigore del primo degli otto decreti attuativi (gli ultimi quattro sono attesi in settimana). Era il 7 marzo scorso e in Italia nasceva il nuovo contratto a tempo indeterminato senza articolo 18. Accompagnato da uno sgravio (già in vigore da gennaio) senza precedenti: zero contributi e zero Irap. Eppure il quadro è quello dell’Istat.
Un quadro di stock: quanti occupati e disoccupati in un dato periodo. Spesso contrapposto – specie dalla comunicazione politica, se più favorevole – all’altro di flusso di Inps e ministero del Lavoro che invece registrano contratti attivati e cessati. Nessun conflitto, entrambi raccontano pezzi diversi della stessa storia. Se un giovane viene stabilizzato, dunque passa da un contratto a termine al tutele crescenti, per ministero e Inps è un +1, mentre per l’Istat è zero (lavorava prima e lavora ora).