Le micro imprese, ovvero le imprese che contano meno di dieci dipendenti, sono il tessuto produttivo dell’Italia: oltre a costituire il 95% delle imprese italiane, queste piccole realtà producono il 31,4% del Pil e il 7% dell’export nazionale e danno lavoro al 47,2% della popolazione che lavora in questo settore.
La loro importanza nell’economia italiana è quindi indiscutibile, ma questo non è servito negli ultimi anni a creare delle condizioni di vantaggio per queste piccole aziende, che, anzi, hanno visto aumentare di anno in anno la percentuale delle tasse da pagare: secondo un recente studio della CGIA di Mestre, le micro imprese italiane pagano da un minimo del 53% e fino al 63% di tasse sul guadagno delle loro attività.
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Gli aumenti si sono avuti soprattutto negli ultimi due o tre anni a causa dell’entrata in vigore di tasse come l’Imu e la Tares e dall’innalzamento dei contributi previdenziali dovuti dai lavoratori autonomi. Un piccolo miglioramento si è avuto con il decreto “Salva Italia”, che ha introdotto la deducibilità dal reddito di impresa dell’Irap relativa al costo del lavoro, e dalla legge di Stabilità del 2013 e il conseguente innalzamento delle soglie di deducibilità.
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Ciò che più lascia pensare dell’attuale pressione fiscale sulle imprese italiane e sulla sua distribuzione, sottolinea la CGIA, è che le imprese sono tanto più svantaggiate quanto più sono piccole, con una linea di demarcazione ben precisa che si attesta a dieci dipendenti: sotto a questa cifra, il rapporto con il Fisco è a svantaggio delle aziende, al di sopra dei dieci dipendenti la situazione si capovolge.