L’Agenzia delle Entrate, in base ad alcuni parametri definiti per legge, valuta la congruità tra spese e redditi di un certo contribuenti. Per far sì che alcuni redditi siano eliminati dal reddito complessivo, c’è necessità di portare delle prove certe.
Sull’argomento è intervenuta di recente la Corte di Cassazione con la sentenza numero 21398 del 30 novembre 2012. E’ stato stabilito che davanti ad un accertamento dell’Agenzia delle Entrate che applica dei parametri specifici per le verifiche, il contribuente, per provare che il suo reddito è diminuito, deve fornire prove certe, per esempio distinguendo accuratamente il tempo dedicato all’attività di lavoro dipendente, da quella dedicata all’attività di lavoro autonomo.
Il fatto che ha originato il pronunciamento. L’Agenzia delle Entrate ha rilevato che i redditi dichiarati da un contribuente nel 1998 erano inferiori a quelli derivanti dall’applicazione dei parametri contenuti nel Dpcm 29/1996. Il reddito da lavoro autonomo è stato portato da 14534 a 50653 euro e al contribuente è stato chiesto di pagare maggiori imposte, le sanzioni, gli interessi e gli accessori.
Il contribuente ha dichiarato di aver svolto l’attività di lavoro autonomo in via residuale ed ha fatto ricorso alla Commissione tributaria prima e alla Cassazione poi, ma il ricorso è stato respinto, poiché il contribuente avrebbe dovuto portare prove certe del minor reddito conseguito, evitando dichiarazioni vaghe, relative per esempio all’uso personale e non più promiscuo dell’auto di lusso o considerando prevalente l’attività da lavoro dipendente.
All’Erario servono prove certe, quindi indicazione di orari, tempi di esecuzione delle prestazioni, impegni rifiutati o impossibili da svolgere per mancanza di tempo. Giustificazioni più precise avrebbero potuto evitare la sentenza tributaria.