Il prossimo 27 novembre si terrà il vertice dell’OPEC. Intanto, le quotazioni del petrolio si attestano di poco superiori agli 85 dollari al barile. La settimana scorsa sono stati toccati al rialzo i minimi, ma ben al di sotto dei 106 dollari della media dell’ultimo quadriennio. L’OPEC produce intanto il 40% del petrolio mondiale e a settembre ha fatto aumentare l’output a 30,66 milioni di barili al giorno, il livello più alto degli ultimi 13 mesi.
Disattende totalmente le aspettative l’Arabia Saudita, la quale produce 9,65 milioni di barili al giorno e che ha un potenziale fino a 12,5 milioni. Il Paese non ha tagliato più la produzione, anche perché crede di avere già fatto la sua parte in questi anni di crisi e in agosto aveva diminuito ancora di 400 mila barili. All’inizio di ottobre, Riad ha aggiornato al ribasso i listini dei prezzi per i clienti, segnalando la volontà di difendere le proprie quote di mercato, anche a costo di scatenare una guerra dei prezzi. L’Iraq ha effettuato la medesima operazione e l’Iran non chiede un taglio della produzione, né intende farlo a sue spese. Gli ‘addetti ai lavori’ commentano così il momento:
Il risultato è che la produzione continua a tenersi al di sopra di quanto non sarebbe opportuno per i paesi produttori, sulla base del loro fabbisogno finanziario. Un prezzo del petrolio ai livelli attuali o, addirittura, ancora più basso, si dice che creerebbe contraccolpi evidenti in Russia, dove il 46% delle entrate fiscali deriva dalla vendita di gas e greggio. Per tenere in pareggio il bilancio, l’economia russa avrebbe bisogno di una quotazione a 100 dollari al barile. Per ogni dollaro in meno, lo stato perderebbe 2 miliardi di dollari di entrate o 80 miliardi di rubli. Attenzione, però, a pensare che Mosca sia l’unico sconfitto in questa partita.