Sono mesi duri per il petrolio. Un quinto della produzione petrolifera della Gran Bretagna, pari a circa 160mila barili al giorno, rischia di terminare con il prezzo del greggio sotto 50 dollari al barile.
Il segnale d’allarme, ennesima testimonianza che i rischi sull’offerta non sono soltanto inerenti allo shale oil americano, proviene dall’associazione di categoria Oil and Gas Uk. Il ceoMalcom Webb, intervistato da Platts, si scaglia principalmente contro la pressione fiscale troppo pesante imposta da Londra, soprattutto per le operazioni estrattive avviate prima del 1993:
I giacimenti più vecchi e con minori volumi di produzione sono davvero in difficoltà oggi. Pensiamo che questa situazione riguardi circa il 30% dei giacimenti, responsabili del 20% della produzione nazionale. I primi segnali di rallentamento delle estrazioni di petrolio in paesi non Opec, evidenziati anche dall’Agenzia internazionale dell’energia, avevano messo un freno alla caduta delle quotazioni del barile: il recupero della settimana scorsa, benché modesto, aveva interrotto la più lunga serie di ribassi settimanali dal 1986, sette consecutivi. Ma ieri il petrolio è tornato sotto pressione, cedendo oltre il 2% e chiudendo, nel caso del Brent per marzo, a 48,84 dollari al barile. Le inquietudini sulla domanda sono tornate in primo piano, con gli analisti che si attendono un ulteriore rallentamento della crescita cinese nel quarto trimestre 2014 (il consensus è per un +7,2%, il minimo dai tempi della recessione globale). Inoltre, benché un numero crescente di giacimenti – e di investimenti estrattivi – appaia a rischio, ci sono aree geografiche in cui la produzione continua a salire, negli Stati Uniti e non solo: in dicembre, si è saputo ieri, l’Iraq ha estratto 4 milioni di barili al giorno, un record da 35 anni.
Intanto, il ministro del Petrolio iraniano Bijan Zanganeh ha messo una pietra sopra alle speranze (peraltro quasi inesistenti) di un intervento dell’Opec.