A poche ore di distanza dalla chiusura del vertice Opec, è già possibile individuare su scala mondiale i primi cambiamenti e l’effetto delle strategie messe in atto dai Paesi del cartello dei produttori.
Basti pensare che Exxon, primo gruppo mondiale dell’energia, nella giornata di ieri ha lasciato sul terreno 16,8 miliardi di dollari di valore presso la Borsa di Wall Street: una cifra più che considerevole. Messe insieme, le major occidentali del petrolio hanno bruciato oltre cento miliardi di capitalizzazione.
Intanto si registra un rally per i titoli dei gruppi ad alto consumo di energia, compagnie aree americane in testa. Questa settimana l’Opec ha consegnato ai mercati la sua ultima sorpresa, e chi non l’aveva messa in conto ora sta cercando di trovare soluzioni. Il Brent viaggia a quota 70 dollari al barile, l’8% in meno in confronto a giovedì prima degli annunci dell’Opec ma, soprattutto, il 40% al di sotto dei livelli di giugno. L’indice americano Wti ha perso in una sola seduta il 10% a 66,15 dollari.
Il vecchio cartello di Paesi che garantisce il 40% del greggio prodotto nel mondo ha fatto qualcosa che non tutti avevano previsto: è rimasto fermo. Ha deciso di non agire. Di fronte a un eccesso di produzione mondiale che il Venezuela stima in due milioni di barili al giorno, non ha tagliato neppure di mezzo milione. Senz’altro il primo responsabile della scelta è stato Ali Al-Naimi, ministro del petrolio dell’Arabia Saudita e, come tale, mente e voce del primo produttore del pianeta. Il regno sunnita del Golfo che da solo vale circa 12 milioni di barili al giorno (ma ne estrae solo 9), ha deciso che il prezzo può scendere ancora: non è il momento di chiudere i rubinetti, benché il mercato sia fin troppo liquido.