Si è sempre pensato, è un sentire comune, che quando un paese è in crisi, va alla ricerca del conflitto perché l’industria militare garantisce entrate anche migliori di quello che si possa pensare. Il problema delle spese militari è tornato in primo piano dopo il vertice Nato in Galles.
Obama aveva la necessità d’intervenire militarmente su più fronti: doveva in primo luogo guidare una forza militare contro i filorussi in Ucraina e poi andare ad indebolire e sgominare l’ISIS. Lo ha detto anche all’ultimo vertice Nato, quando Cameron ha ribadito che i membri delle Nazioni Unite, Italia compresa, devono spendere il 2% del PIL nel comparto militare.
> Obama elogia l’Italia ma chiede di più sulle spese militari
Ma alla fine arriviamo sempre a spendere così tanto? La risposta è negativa perché se anche la Nato impone il 2%, il nostro Paese si ferma soltanto all’1,3%. In realtà, nonostante molti fronti siano un vantaggio e un impegno per tutti, a pagare di più sono pochi. O meglio, non tutti i paesi della Nato spendono quanto imposto dall’Alleanza.
Di conseguenza la Nato sborsa molti soldi perché i Paesi adempienti sono sempre pochi. Nel 2012, tanto per fare un esempio, nel Vecchio Continente soltanto il Regno Unito e l’Estonia sono arrivati alla soglia del 2 per cento, investendo in spese militari, rispettivamente, il 2,3 e il 2 per cento.
Sotto la soglia della classifica ma ad un livello di spesa ancora accettabile, ci sono Francia (1,9%), Cipro (1,8%), Polonia (1,7%) e Grecia (1,7%). Cipro, tra l’altro, non è nemmeno membro della Nato. In Europa la spesa media è dell’1,5 per cento del PIL e noi siamo al di sotto della media, con buona pace dei pacifisti e delle polemiche varie sugli F35.
Meno di noi hanno investito soltanto Germania e Spagna con l’1,2 e l’1 per cento del PIL.