Sono numerosissimi i risparmiatori italiani, considerati principalmente alla stregua di evasori fiscali, che dopo aver contribuito alla ricchezza del Canton Ticino, sono costretti da una quindicina d’anni a far rientrare (a malincuore) i loro capitali in Italia.
La ‘Colpa’? Prima era dei tre scudi fiscali di Giulio Tremonti, nel 2001, 2003 e 2009. Oggi è della Voluntary Disclosure, ovvero dall’intesa, sottoscritta lo scorso anno dal Governo Renzi e da quello elvetico. Intesa che, se da un lato ha permesso alla Svizzera di ripulirsi l’immagine e di togliersi dalla lista nera dei paradisi fiscali, dall’altro ha provocato contraccolpi economici non indifferenti, su Lugano e sul Canton Ticino. Mentre, nelle casse italiane, ha riportato una quarantina di miliardi di euro.
Dati alla mano, dal 2001 a oggi, il numero di banche operanti sulla piazza ticinese, come ha appurato il Centro di Studi Bancari, situato nei pressi di Lugano, è passato da 76 a 50. Anche la parte del Pil cantonale, creato dagli istituti di credito”, si è notevolmente ristretto, scendendo dal 18 al 12 per cento, come ha spiegato un esperto dell’istituto al quotidiano Le Temps di Ginevra.
Da tutto ciò è scaturito un altro guaio, questa volta per le finanze cantonali, che hanno visto il contributo delle banche crollare del 75%. “Erano 60 milioni di franchi nel 2007, nel 2014 non superavano i 15 milioni”, il calcolo fatto dall’economista dell’Universita della Svizzera Italiana, Mauro Baranzini. Non poteva mancare, poi, un riflesso negativo sull’impiego. In effetti, se nel 2000, quindi alla vigilia del primo scudo Tremonti, i dipendenti delle banche di Lugano e dintorni, erano 15.000, oggi superano di poco le 10.000 unità. Pure l’indotto, che generava profitti, quando la piazza finanziaria grondava capitali in nero, si è ridotto di molto.
Esemplare, al riguardo, la testimonianza di un pasticciere. “Ai bei tempi – dice – per Natale le banche mi commissionavano 5.000 panettoni, oggi neanche uno”.